
di David Zebuloni
Il primo vero libro che io abbia mai letto, fu un libricino dalla copertina rosa. Centoquindici pagine che mi fecero scoprire il magico mondo della parola. Tredici capitoli che mi aprirono una finestra su quel periodo storico chiamato Seconda Guerra Mondiale. Ricordo il momento esatto in cui scoprii il libricino dalla copertina rosa su una mensola di legno in camera di mio fratello. Rimasi come ipnotizzato dal titolo. Una bambina e basta. Quell’ingenua impazienza di crescere che tanto caratterizzò la prima fase della mia vita, venne d’un tratto scossa come da un terremoto. Quelle parole funsero immediatamente da richiamo. Da invito. Da imperativo. L’imperativo di essere di essere un bambino. Un bambino e basta. “La scrittura è un pozzo di emozioni sempre in fermento”, mi spiega Lia Levi, l’autrice del libricino dalla copertina rosa. Indossa un elegante maglione viola e sorride spesso quando parla. “Mi trovo molto bene con voi giovani, mi aiutate a ricaricarmi”, mi confessa durante il nostro incontro. All’anagrafe risulta avere ottantanove anni, ma sentendola parlare pare ancora una giovane donna amante della vita. Una giovane scrittrice entusiasta del suo mestiere. Dopo aver pubblicato decine di libri e vinto altrettanti premi, infatti, Lia Levi non è ancora sazia di storie e di racconti. Scrive per fedeltà. Scrive perché deve mantenere una promessa fatta a quella bambina che è stata durante la guerra. A quella Lia bambina che scrisse una lettera alla Lia adulta chiedendole di non dimenticarsi di diventare una scrittrice. Scrive nel tentativo di semplificare la complessità della vita. Per risolvere il mistero di quella storia di cui è stata protagonista. Scrive per passione, per vocazione, per necessità. Scrive per se stessa, bambina e basta di allora, e per noi, bambini e basta di oggi.