Settembre nero 1970 – palestinesi vittime, ma non se l’assassino è arabo

SNN

di Gabriel Venezia

Dopo la vittoria israeliana nella Guerra dei Sei giorni del 1967, gli equilibri in Medio Oriente cambiarono drasticamente con la perdita, da parte di Egitto e Giordania, dei territori di Gaza e Cisgiordania (West Bank). La Giordania accolse circa 300.000 palestinesi, tra civili e militanti di diverse formazioni, inclusa l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) di Arafat. Forte del numero di rifugiati presenti nel Paese già dal 1949 e delle nuove ondate dalla Cisgiordania, tra il 1967 e il 1970, l’OLP creò delle vere e proprie enclave autonome all’interno del territorio giordano, sotto l’autorità civile e militare palestinese. Dai territori situati oltre il fiume Giordano, i fedayn (guerriglieri palestinesi) lanciavano attacchi verso i nuovi confini israeliani.

L’avvicinamento agli USA del Re Hussein di Giordania incrinò il rapporto con l’OLP, sfociando in quotidiane sparatorie tra le forze di sicurezza di Amman e i gruppi palestinesi. Solo nel marzo 1968, a Karameh (una cittadina nella Valle del Giordano e sede del movimento palestinese Fatah), le due fazioni ritrovarono una temporanea unità per respingere un tentativo israeliano di catturare Arafat e distruggere le infrastrutture dei fedayn. Il risultato fu rovinoso per l’OLP, che non capitolò solo grazie all’intervento giordano. Nonostante la sconfitta, ancora oggi il movimento palestinese celebra ancora oggi la battaglia di Karameh come un evento di riscossa nazionale.

I rapporti tra Amman e le organizzazioni palestinesi si deteriorano definitivamente a causa del radicamento dei fedayn nei campi profughi e dei numerosi dirottamenti aerei da parte del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina sul suolo giordano. La goccia che fece traboccare il vaso furono i tentativi di assassinio del re Hussein da parte del FPLP nel giugno e settembre 1970. Il sovrano decise di liberarsi della presenza palestinese mobilitando l’esercito contro le sedi dell’OLP e i campi profughi. Tra il settembre 1970 e il luglio 1971, l’esercito giordano costrinse migliaia di combattenti e civili a lasciare la Giordania per rifugiarsi in Libano. L’azione, giudicata da molti paesi arabi come un atto di pulizia etnica, scatenò proteste e sanzioni da parte di Egitto, Siria, Libia e Sudan contro la Giordania. Nei soli primi dieci giorni di guerra, furono uccisi tra i 3000 e i 5000 palestinesi, la maggior parte civili. Questo conflitto, vissuto dai giordani e dai palestinesi come una vera e propria guerra civile, è passato alla storia come “Settembre nero”. Il nome ispirò una frangia militante palestinese che si costituì nell’omonimo gruppo terrorista, responsabile dell’assassinio degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco del 1972.

Ma come reagì l’occidente al massacro giordano dei palestinesi?

L’Italia, nel pieno degli “anni di piombo”, era un Paese scosso dalle mobilitazioni giovanili, dal terrorismo di estrema destra e dai sequestri della sinistra extra parlamentare, ma era anche attenta alle vicende internazionali come Vietnam, Cina, e Medio Oriente. Già con la Guerra dei Sei giorni, la solidarietà dei movimenti occidentali, specialmente nelle università, aveva iniziato a vedere i palestinesi come vittime del colonialismo e dell’imperialismo. Nonostante l’esistenza di gruppi come il “Comitato italiano di solidarietà con il popolo palestinese” in Italia e il “GUPS” (l’unione generale degli studenti palestinesi in Europa), non furono organizzate mobilitazioni o dimostrazioni in favore dei palestinesi massacrati dai giordani.

Il silenzio assordante dell’Occidente durante il massacro di Settembre Nero rivela una verità scomoda: la solidarietà verso il popolo palestinese è stata, spesso, più una posa ideologica che un impegno costante. Quando al centro del conflitto non vi era Israele, ma un paese arabo come la Giordania, l’indignazione svaniva, i cortei tacevano e le voci dell’intellighenzia progressista si facevano deboli.

L’Occidente che si erge a difensore dei diritti dei palestinesi e li usa, oggi come allora, come strumento geopolitico. La narrazione della loro sofferenza viene adottata in base a calcoli di convenienza: per attaccare un nemico, per distogliere lo sguardo da altre responsabilità, o per rafforzare posizioni ideologiche. Nel 1970, l’assenza di mobilitazioni per i palestinesi massacrati dai giordani mostrava una gerarchia delle vittime. Oggi, la strumentalizzazione della causa palestinese in funzione antisraeliana o antioccidentale mostra la stessa logica: la Palestina non è vista come un popolo, ma come un simbolo utile, da attivare o dimenticare secondo necessità. A conferma di questa tesi vi sono le mancate sollevazioni degli intellettuali e delle piazze pro-Palestina in Occidente contro Hamas, che a poche ore dall’inizio della tregua a Gaza, ha avviato un’opera di epurazione verso i palestinesi appartenenti a fazioni rivali e dei presunti sospettati di collaborazioni con Israele. Rileggere Settembre Nero significa, dunque, mettere a nudo l’ipocrisia di un sistema politico e mediatico che sceglie chi merita solidarietà e chi no, non in base alla giustizia, ma in base al puro interesse.


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