Un anno dal 7 ottobre. Siamo diventati la storia che cambia
di David Di Segni
Il 7 ottobre è la storia di una strage, l’ennesima subìta dal popolo ebraico. Quella mattina di ormai un anno fa, quando i terroristi palestinesi di Hamas hanno invaso Israele a caccia di ebrei, per qualche istante il mondo si è fermato. Attonito davanti al dramma e alla violenza, indignato e con gli occhi socchiusi davanti al disumano orrore mostrato senza filtri dai video online. Restano le urla, le immagini diventati indelebili. Come quella dei piccoli Bibas, che nelle braccia della madre sono stati rapiti a Gaza; quella di Noa Argamani, caricata in sella a una moto con dei Jihadisti e portata fin dentro la Striscia; quella di duecento vite rapite, cento delle quali ancora in attesa di essere liberate. Ma anche la indimenticabile gioia del mondo arabo di fronte “alla vittoria” palestinese. Restano anche le storie. Fra queste c’è quella di un terrorista di Hamas che, mentre partecipa al pogrom, chiama il padre al cellulare e, senza nascondere l’emozione, gli urla: “Papà! Ho ucciso degli ebrei, Papà!”. All’altro cavo del telefono, il padre piange e lo benedice ringraziando Allah. Cambiando numero, però, tutto cambia. Stavolta al telefono c’è una giovane ragazza che chiama il suo papà. C’è confusione, urla, lei è disperata e piange dicendogli di essere in pericolo perché ci sono dei terroristi. Ma soprattutto gli dice che lo ama. Queste vicende accadono nello stesso momento, ma scorrono in direzioni opposte. Da una parte c’è un padre che gioisce perché il figlio è finalmente Shahid, un “testimone della fede”, un martire. Dall’altra c’è un papà che aveva da poco lasciato la figlia a una festa – fra spensieratezza, musica e divertimento – e che si trova impotente davanti il suo panico. Da una parte c’è un terrorista, che brandisce il corpo esanime di due ebrei, dall’altra c’è una ragazza che si aggrappa alla vita, che chiama la famiglia perché forse non la sentirà mai più. Nessuno di noi può comprendere la paura, il terrore che possa aver provato, né la morsa al cuore dei suoi genitori. Molti di coloro che hanno vissuto quel momento hanno sperato di morire prima di soffrire. Quel dolore non è possibile da comprendere. Il 7 ottobre 2023 i terroristi palestinesi hanno bussato casa per casa e hanno stuprato donne, ucciso barbaramente innocenti, vilipeso i cadaveri, decapitato bambini. Poi hanno rapito e deportato i pochi rimasti, senza distinzione alcuna, fin dentro la Striscia di Gaza fra le acclamazioni dei palestinesi in festa. Quella mattina di ottobre ogni ebreo ha vissuto sulla propria pelle l’impotenza davanti l’antisemitismo. Quei pogrom, quelle vessazioni e umiliazioni che si credevano finite con la fondazione di Israele sono tornate in auge sotto i nostri occhi: d’un tratto siamo diventati la storia che cambia. Una di quelle che i nostri figli, e dei loro figli ancora, ricorderanno di generazione in generazione. Fin qui vero, ma non è tutto. Se così fosse, se finisse così, tradiremmo il retaggio culturale, comportamentale e forse anche genetico che caratterizza ogni ebreo, quello di rispondere alla disgrazia con l’esaltazione della vita. Il popolo ebraico resta, sempre e comunque, il popolo della vita. Lo stesso che davanti ai morti della Shoah ha giurato “Mai più”. Non uno slogan morale, ma l’imperativo morale con cui alzarsi al mattino e coricarsi la sera, che non protegge da future aggressioni e pogrom – ce ne saranno, è certo – ma che rassicura sul fatto che nessun ebreo sia più disposto a farsi portare come una bestia al macello davanti al silenzio assenso di chi, ieri, voltava la faccia davanti alla barbarie nazifascista e di chi, oggi, fa lo stesso strizzando l’occhio a terroristi antisemiti e nemici dell’Occidente. No, non accadrà. Perché la forza di ogni ebreo e la sua stessa esistenza dipende da quella del proprio popolo. A un anno dal 7 ottobre, con tutte le difficoltà e gli ostaggi ancora fra le grinfie di Hamas, la voglia di vita del popolo ebraico vincerà: perché Am Israel Hai.