Un anno dal 7 ottobre e la nuova prospettiva per il Medio Oriente – Intervista a Claudio Pagliara
di David Di Segni
Ci sono date indelebili che hanno segnato il corso della storia e contribuito a plasmare una nuova percezione della realtà. Il 7 ottobre 2023 rientra certamente fra queste. La furia che Hamas ha scagliato contro civili inermi, violando la sicurezza e quindi l’essenza stessa dello Stato d’Israele, ha lasciato il mondo attonito e incredulo come durante l’attentato alle Torri Gemelle. In quell’occasione, il presidente statunitense George W. Bush diede inizio alla Guerra al terrore con una campagna in Afghanistan contro Al-Qaeda e poi una in Iraq. Oggi quella stessa espressione descrive la guerra che Israele è chiamato a combattere contro il terrorismo islamico armato e finanziato dall’Iran. Anche lo Stato ebraico, come gli USA di vent’anni fa, combatte una guerra inevitabile. Per comprendere le odierne sfide globali e i possibili futuri sviluppi del Medio Oriente, HaTikwa ha intervistato Claudio Pagliara, corrispondente RAI da New York e autore de “La tempesta perfetta. USA e Cina sull’orlo della terza guerra mondiale”.
Il 7 ottobre è una data indimenticabile per Israele, tanto da esser stata paragonata all’11 settembre americano. Reputa giusta la similitudine?
Ci sono dei parallelismi, perché in entrambi i casi si tratta dell’attacco terroristico maggiore, con un bilancio di vittime terrificante. Per Israele l’impatto è stato ancor più sconvolgente, per le dimensioni dell’aggressione, la natura e i crimini che sono stati commessi, le brutalità di cui ormai sappiamo tutto, per il numero incredibilmente alto di ostaggi che sono stati portati a Gaza. Facendo un rapporto rispetto il numero totale della popolazione, è come se i tremila morti delle Torri gemelle fossero stati trentamila per Israele. Comunque uno shock e un momento di crisi vera a tutti i livelli, non c’è un solo israeliano che non abbia avuto un amico, conoscente o parente diretto tra le vittime o i rapiti. È stato giustamente paragonato al più grave attacco che il Popolo ebraico abbia subito dai tempi della Shoah. Qui, in America, si è vissuto come un momento di grandissimo dolore crescente. Un altro shock, per me che conosco Israele, è stato chiedersi come sia stato possibile tutto ciò. Quindi in entrambi i casi, un grande dolore e un gran stupore.
Dopo l’11 settembre, gli Stati Uniti intrapresero una campagna in Afghanistan conclusasi col ritiro da Kabul circa vent’anni dopo. A inizio guerra, Biden ha consigliato a Netanyahu di non ripetere quegli errori. Quanto sono diverse le due guerre?
La guerra lanciata da Bush in Afghanistan era legittima come, peraltro, la risposta israeliana a Gaza. Sia dopo le Torri Gemelle sia dopo il 7 ottobre, che sono dichiarazioni di guerra da parte di nemici giurati, non poteva non esserci una risposta. I nemici però sono molto diversi, così come le condizioni logistiche: la vicinanza di Gaza per Israele, la lontananza degli USA dall’Afghanistan, il fatto che Al-Qaeda si celasse dietro un regime oscurantista. La guerra in Afghanistan è durata vent’anni ed è finita male, con una ritirata ingloriosa e con il ritorno di quello stesso regime che si è combattuto, all’ombra del quale probabilmente si staranno ricostruendo cellule terroristiche globali che i talebani tollereranno e foraggeranno. La guerra a Gaza ha tutt’altra natura, per gli spazi, la densità di popolazione e per il fatto che Hamas si sia preparato per sedici anni, creando centinaia di chilometri di tunnel sotterranei per nascondere gli ostaggi e farsi scudo della popolazione civile. Una guerra molto più difficile.
Qual è la difficoltà?
Se si vuole vincere non solo la guerra ma anche la fase successiva, bisogna mostrare alla popolazione palestinese che il tenore di vita e i diritti possano essere migliori di come lo sono ora. In Afghanistan è riuscito parzialmente. Anche sotto i talebani il paese non è più quello di vent’anni fa, perché le donne hanno conosciuto la realtà, il progresso, un’istruzione che gli era negata. Quindi, adesso, tornare indietro è più complicato. Nel difendere al 100% il diritto di Israele di andare contro i terroristi che hanno compiuto un crimine orrendo, altrettanto dico che non ho ancora visto una politica israeliana che si ponga il problema di creare condizioni per la popolazione palestinese, che è diversa da Hamas. Se Israele non riesce a separare i terroristi dai civili e non riesce a dare alla popolazione la sensazione che senza Hamas starà meglio, potrà anche vincere la guerra, ma non la vera partita che è quella della pace. Gli americani lo hanno fatto a Fallujah, dove combatterono nel 2004 contro gli insorti sunniti che successivamente diedero vita allo Stato islamico: è stata rasa al suolo, ma allo stesso tempo si è cercato di dare ai civili la prospettiva che senza Stato islamico potesse esserci un futuro migliore.
Che scenari si aprono adesso?
Io credo che, nei prossimi mesi, non ci sarà alternativa al mantenimento della sicurezza a Gaza da parte dell’esercito israeliano. Perciò è necessario non ripetere gli errori del passato e pensare che con la sola presenza militare si risolva un problema che resterà lì se non si dà una prospettiva politica alla soluzione. Dal punto di vista militare, Hamas è stato indebolito. Purtroppo gli ostaggi non sono stati liberati e questo sarà possibile solo con un accordo, e convengo che Israele non possa accettarne uno che preveda il mantenimento dei terroristi al potere nella Striscia. Tuttavia, per i lunghi tempi previsti, bisogna che da subito si cerchi di separare i civili dai terroristi non solo nelle operazioni militari, ma nel creare condizioni di vita che gli facciano capire di poter vivere meglio senza Hamas. Poi serve una architettura politica in cui quel popolo acquisisca i suoi diritti di indipendenza.
Il fatto che la popolazione palestinese venga indottrinata all’odio contro Israele dai fondamentalisti di Hamas complica questo processo. Come si snoda la questione?
Durante il nazismo, i tedeschi erano stati indottrinati a odiare. Era un regime come l’islam radicale, ma se ai civili si dà prospettiva diversa e si fa capire che si può vivere meglio, la gente cambia. Si deve avere fiducia in questo. Altrimenti si può vincere la battaglia, ma non la guerra. Ci sono le condizioni.
Quali sono?
La cosa più sorprendente di questo anno di guerra, di cui si parla poco, è che, nonostante tutto, l’accordo di pace fra Israele ed Egitto esiste ancora e non è stato revocato, quello con la Giordania anche, così i patti di Abramo a cui stava per aderire l’Arabia Saudita, il cui valore è tale da poter cambiare tutta la regione e i parametri. Quindi le condizioni ci sono. Bisogna che si chiariscano le intenzioni strategiche dopo la guerra: cosa si vuole fare dopo che aver indebolito al massimo i nemici storici di Israele? Io credo che questo salto di qualità nei dirigenti israeliani ci sia, ma ancora non è stato espresso in tutta la sua chiarezza. Ed è parte della problematica diplomatica che attraversa Israele, quella di non riuscire a trovare solidarietà perché non ha mostrato alla Comunità internazionale che sta agendo per difendersi con intenzione di dare prospettiva ai civili di prosperare in modo indipendente.
Il futuro dei palestinesi, però, non dipende solo da Israele. Neutralizzato Hamas, quanto è importante il sorgere di una leadership palestinese progressista, che finora l’ANP non è stata in grado di essere?
Sono d’accordo. L’attuale Autorità Nazionale Palestinese soffre di un grave deficit di democrazia. Il presidente Mahmoud Abbas, eletto nel 2006, non ha il sostegno del suo popolo. Infatti, nel piano dell’amministrazione Biden si parla di “Autorità palestinese riformata” che dovrebbe avere un ruolo anche nel futuro di Gaza. In che modo riformarla, ovviamente, è tutto da decidere.
Spostiamoci oltremare. In un anno di guerra, gli Stati Uniti non hanno mai fatto mancare il proprio sostegno a Israele, nonostante diversi momenti di tensione. Cosa c’è alla base di questa alleanza di ferro e quanto influiranno le prossime elezioni americane?
Sia Harris che Trump sono impegnati nella sicurezza di Israele, perché è il più affidabile alleato strategico degli USA nel Medio Oriente, oltre che il baluardo contro l’Iran che vorrebbe cacciare ogni influenza occidentale da quell’area del mondo. Non è un problema di elezioni. I due candidati hanno personalità differenti e idee diverse circa la costruzione del futuro, ma è più una questione di toni che di sostanza, perché siamo in campagna elettorale. Biden ha cercato di completare il grande successo della presidenza Trump, gli Accordi di Abramo, tentando di aggiungerci la Arabia Saudita. Ora sta schierando i più sofisticati sistemi di difesa antiaerea che, insieme allo scudo israeliano, sono in grado di contenere un’eventuale risposta iraniana. Al di là delle parole, gli interessi strategici convergono.
I cittadini americani che ne pensano della guerra in Israele e in Ucraina?
Credo che nella maggioranza della popolazione ci sia un sentimento di vicinanza a Israele. C’è una quota antisemita che è aumentata in maniera sorprendente, è un fenomeno gravissimo ma resta comunque minoritario. Sull’Ucraina la questione è diversa, perché è molto lontana, l’americano medio non saprebbe nemmeno dove collocarla e la considera un costo. Su questo c’è maggiore propensione a pensare che bisognerà trovare un compromesso, ma comunque al Congresso, sull’Ucraina come su Israele, c’è un consenso bipartisan così come sul ruolo che la NATO. Se Trump dovesse vincere, non credo che svenderebbe l’Ucraina a Putin ma cercherebbe un compromesso, idea che inizia a maturare anche per Harris. Nel campo ucraino c’è stanchezza, l’obiettivo di riconquistare i territori è irrealistico e, nonostante il Piano della vittoria presentato da Zelensky, immagino che dopo le elezioni americane si aprirà una fase diversa in cui bisognerà porre fine alla guerra. Sarà giusto far entrare l’Ucraina nella NATO, a garanzia che la Russia non tenti di andare oltre.
Mentre gli Stati Uniti si dividono fra Ucraina e Medio Oriente, la Cina persegue l’obiettivo del primato economico. Una potenza emergente contro una dominante: si innesca quella che gli studiosi chiamano la Trappola di Tucidide?
Non mi piace molto il termine. Il mondo è diventato più multipolare, ma non vedo nessun paese che possa sostituirsi agli USA come difensore di quei valori in cui credo. La Cina rappresenta ideali antitetici rispetto dell’Occidente. L’uomo più potente della terra, inteso come concentrazione di potere, è Xi Jinping, a tal punto che Biden sembra il direttore generale degli USA. Il presidente cinese controlla politica, magistratura, ogni branca dell’amministrazione ed è capo delle Forze armate, poi non riconosce diritti umani, ha una logica di forza e vuole imporre un espansionismo a scapito degli altri. Se la Cina diventa il faro di questo mondo, non sostituisce gli Stati Uniti con il suo stesso sistema di valori, ma cerca di imporne uno ben diverso. In tutto questo, credo che Taiwan possa essere terreno di scontro globale perché, se la Cina dovesse decidere di invaderla, diventerebbe la scintilla di un conflitto globale che non potremmo non chiamare Terza guerra mondiale.
Lasciamoci con una riflessione. La guerra bipolarizza le masse. Oggi è “noi”, inteso come Occidente e democrazie, contro “loro”, cioè le autocrazie. Quanto c’è di noi in loro e viceversa? I dissidenti nei regimi illiberali vorrebbero vivere come noi, mentre una parte delle nostre società guarda con interesse ai regimi dittatoriali…
In Occidente c’è una fascinazione dell’uomo forte. Una delle incoerenze maggiori che ho visto seguendo le manifestazioni filo-Hamas nei Campus americani è la contraddizione delle donne che dicevano From the river to the sea, slogan che prevede distruzione di Israele, e allo stesso tempo si dichiaravano per il Diritto all’aborto e per la comunità LGBTQ. Non solo non sapevano quale fosse il fiume e il mare in questione, ma nemmeno che cosa significhi vivere in un regime islamista come Hamas, dove dichiararsi gay significa una condanna di morte, dove esiste il delitto d’onore. La fascinazione nasce comunque da una grande ignoranza.
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