Trump, gli ebrei, l’antisemitismo – Un sentiero senza ritorno?
“Cacciate i pregiudizi dalla porta, rientreranno dalla finestra”, diceva Federico II, ed è più o meno quello che passa nella testa di molti ebrei americani dopo le elezioni di novembre. Non perché sia successo qualcosa di così drammatico, ma per un cambio di tono di fondo, non solo politico, che improvvisamente rende l’America più simile all’Europa, un potenziale pericolo a lungo termine, non immediato. E’ spuntata una serie di dilemmi per gli ebrei americani, che sembrano immersi in un eterno gioco di “schiaccia la talpa”, dove il focus su che tipo di antisemitismo condannare… o come interpretare alcuni incidenti, cambia a seconda di dove batte il martello.
Non si può dire che sia un’epoca di panico, o chi lo dice esagera, per una ragione o per un’altra; non si può dire che questa amministrazione sia per forza la salvezza per gli ebrei, ma nemmeno la sua condanna. Il punto è proprio cosa si guarda. Il punto è proprio che c’è chi non guarda, guarda un solo aspetto e non l’altro. L’atto singolo o la politica estera, la frase antisemita o le parentele? In un’epoca dove il lavoro sulla tolleranza domina, dove ci sono persino eccessi di political correctness in un paese come l’America sembra ridicolo preoccuparsi degli ebrei. Ci sono tanti risvolti contraddittori e cambiamenti epocali, non percepiti oltreoceano, che meritano di essere esplorati, riflettendo anche sul fatto che il presidente americano giura sulla costituzione durante la settimana della Memoria, vicino al 27 gennaio.
Trump sale al potere dovendo gran parte del suo successo al genero Jared Kushner, un ebreo “esemplare”, che ha mosso le pedine giuste durante la campagna, che ha convertito la moglie Ivanka, amato da molte associazioni ebraiche, eppure deve anche la sua enorme popolarità a Alex Jones o a milioni di negazionisti su Twitter (e nella realtà…) che sostengono che la Shoah sia stata un’operazione meno terribile di quanto si pensi.
Com’è possibile? Sceglie David Friedman come ambasciatore in Israele, un altro ebreo dal curriculum perfetto, amico di Israele, e promette un’ambasciata a Gerusalemme facendo felice lo zoccolo duro di molte comunità, ma allo stesso tempo non ha la conoscenza basilare della cultura ebraica, ha alleanze con Putin che ha discriminato gli ebrei ucraini e non condanna apertamente marce e raduni fatti in suo nome, dove si fa il saluto nazista a Manhattan. Ha una posizione su Israele più chiara, urlata quasi, in una fase dove John Kerry e Obama alienano persino gli ebrei più democratici, ma dalla sua vittoria i neo-nazi del Montana hanno fatto liste di tutti gli ebrei che abitano in alcune città. L’hanno votato rabbini e veri neo-nazi (non adolescenti annoiati e violenti, neo-nazi veri), immigrati latinos e anti-immigrati e questo porta a farsi delle domande.
Per esaminare alcune contraddizioni bisogna capire come quest’elezione e lo stato degli ebrei in America sia tutto meno che bianco o nero, ma anche i rischi nell’appoggiare un politico senza porsi domande. E’ più “utile” agli ebrei americani un presidente che fa un seder di Pesach “cool” con mille riflettori puntati come Obama, con gioia, ma viene criticato per la politica estera? O un potenziale discorso di Ivanka Trump e un incontro tra i mille che il padre farà con Netanyahu? Non è una questione così semplice di politica interna vs politica estera, ma di come vivranno gli ebrei americani per i prossimi quattro anni.
Qualche mese fa alcune amiche ventenni sono andate a incontrare Ivanka in Florida in una sinagoga vicino a Miami, dove il “pandering” (ovvero: il discorso politico costruito ad hoc per il gruppo cui ci si rivolge) agli ebrei era la norma. La mamma di una ha chiesto: “Cosa farà contro l’antisemitismo che è aumentato vertiginosamente durante queste elezioni?” Ivanka ha tentennato. La signora ha offerto dati, ha raccontato come i giornalisti ebrei siano stati segnalati su Twitter con le parentesi ((( ))), lei l’ha assicurata che inviterà il padre a Shabbat spesso… Eppure quella madre ortodossa e aperta ai Trump si stava chiedendo non “cosa succederà nel governo?” ma “come sta cambiando la vita di un ebreo moderno, malmenato dove prima camminava fischiettando la canzone del ‘Violinista sul tetto’?” E’ un antisemitismo specificamente contro gli ebrei oppure sono atteggiamenti e ragionamenti di stampo antisemita (comunque gravi) diretti contro un’idea astratta di potere, un occidente globalizzato o alcuni capri espiatori?
Niente è stato tradizionale in quest’elezione, vero o falso, destra o sinistra, guerra fredda o twitter flame wars, quindi facciamo un passo indietro. Partiamo dal presupposto che per quanto non ami Trump – principalmente per il fatto che ha distrutto alcuni meccanismi istituzionali sani e incoraggia un’anti-cultura che ignora i fatti empirici — non è l’apocalisse. E so bene quali sono le ragioni che spingono ad appoggiarlo per alcuni ebrei europei: la sfiducia negli estremi di una sinistra debole o a volte davvero antisemita, dietro varie maschere, la fiducia in governi precedenti americani di destra (anche se Trump non è di destra), qualche frase che mette al primo posto la sicurezza di Israele, qualche scelta azzeccata.
So anche che l’analisi eccessiva che i social media ci permettono di fare oggi, fanno guardare a ogni scelta del suo team con un’attenzione esagerata, come un’accozzaglia di matti, di cui possiamo scoprire ogni scheletro nell’armadio su Google. Alcuni sono inesperti o appoggiano idee molto limitanti, altri però non sono i mostri dipinti dai democratici. Mi hanno infastidito amici democratici che hanno paragonato la vittoria alla Kristallnacht (la Notte dei cristalli), ma ho visto anche episodi di antisemitismo a Manhattan, vetrine rotte… che mai avrei immaginato in tutta la mia vita, e mai ho visto in 10 anni, ho visto cambiare un linguaggio online, ho affrontato discorsi che non facevo dal liceo in Italia, quando normalmente in Usa parlare di argomenti ebraici era come parlare del tempo. Ho visto risorgere visioni revisioniste che un tempo appartenevano ai gruppi agli estremi.
Per tutta la campagna mi sono immersa in narrative diverse da quelle mainstream cercando tra i tanti, tantissimi supporter di Trump tutti quelli che non corrispondevano a stereotipi, il motivo per cui, al contrario di molti democratici o di chi si appoggiava solo ai numeri, ero sicura della sua vittoria. Gente colta, con valori che l’hanno votato. Non li ho demonizzati. Ascoltandoli attentamente non ho percepito ideologie ben definite pericolose, ma più un generale senso di frustrazione e tantissimi elementi che ho affrontato in altro genere di articoli.
Ho accettato le critiche alla Clinton, ma ho seguito ogni giorno i suoi acerrimi nemici tra l’estrema sinistra e la cosiddetta alt-right (estrema destra) o idoli twitter come Bill Mitchell, e contro di lei si è sprecato in un modo da far paura ogni singolo elemento dell’antisemitismo da manuale, teorie del complotto spaventose. Contro Trump non mancavano gli insulti, ma non erano mai antisemiti. Non sono esagerazioni ma il proliferare di immagini da troll con simboli antisemiti, passaggi del “Mein Kampf”, pensieri dei peggiori teorici post-verità dell’estrema destra e sinistra, contro chi controlla il potere, l’accusa alla Clinton di non essere abbastanza sicura su Israele, ma poi la valanga di insulti molto pesanti per un’email amichevole mandata da Hillary a un Rotschild. Dove Rotschild era visto come il demonio (notizia che è passata piuttosto inosservata in tanti circoli ebraici).
Non capire questo gioco dove funziona tutto e il contrario di tutto vuol dire non capire la politica attuale. O in alcuni casi più gravi immolarsi a una causa. Si può chiudere un occhio sull’antisemitismo che si insinua nelle forme più subdole per proteggere un ideale di senso di sicurezza geopolitico? E una sicurezza globale che forme assume? E’ più importante affrontare le questioni una ad una nel loro contesto oppure guardare anche a effetti più sotterranei che legittimano atteggiamenti che solo pochi anni fa appartenevano esclusivamente a chi stava in una cantina con lo scolapasta in testa? Un esempio lampante di questi gomitoli contorti: quando Trump dice che ha perso il voto popolare per via degli illegali (ovvero di chi ha votato pur non essendo un cittadino, cosa praticamente impossibile) sta citando Infowars. Infowars non è una fonte qualsiasi, ma un sito che spiega che l’11 settembre è stato organizzato dall’interno dagli ebrei, che l’attentato alla maratona di Boston pure…
E’ una battaglia che forse quindi non si può vincere. Da un lato quello che dice potrebbe sembrare solo un po’ conservatore o anche un’opinione che ha diritto di avere per libertà di parola o denuncia del sistema elettorale americano che obiettivamente fa acqua da tante parti, dall’altro qual è il rischio più grosso delle fonti a cui attinge? Se ne accorge? E’ un problema repubblicano o di tutti oggi l’attingere a queste fonti? Se un suo elettore crede a questa argomentazione, cosa lo ferma da crederne ad altre su Infowars? Se la risposta sembra facile, basta andare a uno Shabbat nell’Upper West Side per sentire ebrei che hanno votato democratico per generazioni sostenere teorie revisioniste sulla stessa storia ebraica… Fenomeno che è apparso solo negli ultimi 2-3 anni.
Come si bilancia il micro con il macro? Quando per esempio c’è un attacco terroristico a Parigi siamo i primi a spostare il focus sulle fondamenta dell’islam, se si guarda a tutta una serie di cause e effetti. Lo facciamo, nel migliore dei casi, non per un atteggiamento ideologico, ignorante o razzista, ma per guardare, come spiegano anche professionisti come Maurizio Molinari, ai rapporti tra famiglia, casa, scuola, società e così via. Spiegare il Bataclan solo con differenze sociali o follia del momento non basta. Qui però è uguale. O dovrebbe esserlo. Lo dimostra il supporter di Trump che è andato a sparare in una pizzeria di Washington DC, credendo a una teoria del complotto assurda nata su internet che collegava la Clinton a un racket pedofilo. Per miracolo non è morto nessuno.
Il voto a un candidato è libero e lo stesso candidato, tolti i filtri ideologici, non è nemmeno la fine del mondo, alla fine governa un “sistema”, tutti hanno pro e contro, ma cosa succede nelle case e scuole? Quanto questi due mondi comunicano e contano? Un altro esempio paradossale è stato il caso di Malik Obama. Al terzo dibattito i “trumpisti” invitano il fratellastro di Barack. Malik Obama è un uomo instabile, esplicitamente pro-Hamas. Nonostante sia stato ripudiato da Barack, durante il dibattito era una mossa politica valida… per screditare un avversario. Però poi tanti dell’entourage di Trump hanno pubblicato selfies sorridenti con Malik, vantandosi del fatto che avrebbe votato Trump e creando un supporto a catena anche tra ebrei. Quindi il messaggio contraddittorio che è passato era: Malik è terribile, pro-terroristi e fa far brutta figura a Obama ma è meraviglioso che uno come lui pro-terrorismo e pro-“tutto quello che odiamo” voti per Trump…
E così ebrei che non vogliono avere giustamente nulla a che vedere con Hamas, o condannano Pallywood (le false notizie di alcuni enti palestinesi) e tanto altro, poi finiscono o per appoggiare apertamente Malik oppure per dover infilarsi in vicoli ciechi come “appoggio il candidato ma non ogni persona che lo appoggia”. Non chiedendosi: sto legittimando un candidato o sto legittimando delle fasce estremiste?
Eppure capisco che non sia tutto sempre così semplice perché in mezzo a questioni gravi come Infowars, ci sono anche lamentele “liberal” veramente superficiali e esagerate dall’altra parte per la più piccola trasgressione non politically correct. Ci sono anche atteggiamenti troppo perbenisti e fintamente giustizialisti che hanno portato a un fastidio, a una diffidenza verso il mondo liberal. In America e negli ebrei della diaspora con Trump si è creato uno scisma interno. Soprattutto dopo le elezioni, quando si sono cominciate a vedere svastiche a Brooklyn… a pochi metri da dove Woody Allen ha girato capolavori come “Radio Days” e dove di svastiche ne hanno sempre sentito parlare pensando a Paesi europei come l’Italia o la Francia.
Tra chi continua ad appoggiare un candidato, vedendo questi come “problemi di sempre”, forse un po’ in aumento solo per le problematiche globali, chi lo appoggia con meno convinzione e si preoccupa, chi è molto spaventato da piccoli gesti a cui gli europei sono ormai (purtroppo) abituati per la prima volta nella vita, e chi esagera con la preoccupazione politically correct. E’ una domanda che in Italia per esempio ci si è fatti spesso tra ebrei di sinistra, rapportandosi alle tante facce della sinistra, senza esagerazioni. Vedere le occupazioni liceali che nel nome del “salvare il mondo” poi escludevano i ragazzi ebrei, oppure nel nome di una grande battaglia di sinistra, finivano a portare bandiere palestinesi che poco c’entravano. Questo non vuole dire non rimanere di “sinistra” (ammesso che questi termini abbiano ancora senso oggi), forse semplicemente aggiungere contraddizioni al proprio pensiero.
Dovrebbe essere evidente però dopo aver esaminato meglio questi “gomitoli” e effetti collaterali che non può essere facile o responsabile dire “mi piace Trump per via di Israele” sapendo che farà una politica che uno può anche apprezzare, ma poi non può non condannare chi dei suoi supporters fa un rally nazista nel centro di Manhattan. E’ come bere un bicchiere di vino al giorno che fa anche bene, ma non preoccuparsi che l’alcol col tempo può anche avere effetti più pesanti, più nascosti e di struttura.
Cosa fare quindi se improvvisamente in una scuola un bambino viene picchiato perché ebreo, in America dove queste cose non sono quasi mai successe e dove gli ebrei hanno dominato culturalmente per decadi imponendo anche modelli di pensiero e libertà totali? Bisogna denunciare la cosa, o per chi è un supporter di Trump inserirla in un altro contesto? Cos’è più rischioso per un ebreo americano pro-Trump o anche semplicemente conservatore o democratico moderato, o critico di alcune scelte di Obama? Atti politici più tradizionali e magari più moderati o doppi o un’analisi antropologica degli elementi che stanno cambiando? Dare appoggio senza se e senza ma a Israele e agli ebrei europei della diaspora o agli ebrei nella realtà quotidiana americana? E queste, a prescindere dalle mie opinioni personali, non sono domande retoriche o provocatorie. In parte non saprei neanch’io come affrontare alcuni passaggi. Non bastano certo la famiglia di Ivanka e le cene di Shabbat a chiudere il vaso di Pandora che queste elezioni hanno aperto per i suoi supporters e certamente tante menzogne su Israele in altri contesti più “sinistrorsi” non aiutano nessuno.
In generale gli ebrei americani hanno votato democratico e ora ne soffrono. E’ comprensibile visto che, rispetto all’Europa, gli ebrei americani si sono sempre sentiti molto tranquilli, mai attaccati. Sono spesso pluri-laureati, filantropi e anche chi ha votato Trump l’ha fatto guardandolo come candidato, non come potenziale catalizzatore di forze sotterranee e pregiudizi millenari. Si trovano però in una posizione unica, dove vivono sulla loro pelle effetti collaterali per cui bisognava guardare meglio il foglietto illustrativo. Gran parte degli ebrei si trovano anche divisi tra difendere Israele e la nota poca parzialità dell’Onu, il sentirsi attaccati da un discorso di John Kerry che si distacca dal governo israeliano attuale e mostra un appoggio meno “ovvio” che in passato (anche se esistente) o, volendo, sembra anche dar materiale a possibili detrattori, e il vivere da ebrei americani e non europei o israeliani in una posizione unica, dove vivono sulla loro pelle effetti collaterali più legati alla società che alla politica per cui bisognava guardare meglio il foglietto illustrativo.
I paragoni con il nazismo, il fascismo all’inizio sono risultati molto inopportuni, ma passata qualche settimana la questione si è fatta più inquietante. Non solo nelle parole e nei fatti (piccoli e grandi episodi), ma nel meccanismo della propaganda, nel ribaltamento di verità che hanno sostanzialmente celebrato il white nationalism, David Duke (KKK), leader antisemiti. Allo stesso tempo è importante ricordare al democratico medio che ora reagisce anche all’ultimo dei tweet, drammatizzando, di non esagerare col vittimismo e che Breitbart, il sito tenuto da Steve Bannon, nel team di Trump, non è il Daily Stormer e non è nemmeno antisemita, è una sorta di Dagospia con notizie urlate alla Sgarbi e per altro molto pro-Israele.
Sono due tipi diversi di sistemi di giudizio per valutare la gravità di una cosa. Da un lato si può far leva minimamente su una complessità che “normalizza” alcuni exploits, pur denunciandoli, come l’italiano ebreo che ha fatto l’abitudine a graffiti con svastiche, insulti casuali un po’ da bar, muri etc. e non stupirsi di un relativismo maggiore o di vedere fenomeni emergere anche in alcuni ambienti americani ma sempre in casi isolati. Oppure bisogna anche non ignorare un americano perbene, che mai ha visto occupazioni con bandiere di Israele bruciate, la scritta casuale dell’anarchico, e scopre ora che i troll regnano supremi, e reagisce con orrore a fenomeni molto nuovi. Dando per scontato che l’antisemitismo è aumentato e questo anche se Trump rendesse Israele lo stato più bello del mondo, non cambia… (peraltro, senza mettere in dubbio il suo amore per il Paese, c’è anche il rischio che un appoggio eccessivo di una persona così eccentrica, radicalizzi anche l’odio pre-esistente verso Israele di alcuni). Come dicevo prima, quello che non permette reazioni ovvie è che a volte una giusta denuncia si accompagna purtroppo a un focus eccessivo delle persone su incidenti a volte anche ridicoli o ipersensibili. Ci sono troppe sorprese, contraddizioni, è un momento magmatico; i giornali sono impazziti attaccandosi a qualsiasi non-notizia, augurandosi quasi il peggio. Questo cocktail porterà a una sorta di profezia che si autoavvera e farà molto peggio di Trump stesso. Rimane questa strana equazione che tutti i tipi di antisemitismo siano pericolosi a modo loro allo stesso grado, ma ci si concentra sempre o su uno o sull’altro.
Due anni fa ho collaborato alla sceneggiatura di “Pecore in Erba”, il film diretto da Alberto Caviglia in cui si ribaltano (e capiscono) alcuni stereotipi sugli ebrei attraverso un personaggio puramente antisemita. Abbiamo guardato a tutto lo spettro dei pregiudizi, a destra e sinistra in Italia o alle sfumature nel gergo popolare, in fasce diverse, in contesti umani diversi, a monte dalla trama del film. Quando raccontavo di questo film in America sembrava un altro pianeta. Solo due anni fa.
Ricevevo o sguardi di preoccupazione e pietà come a dire “poveretti voi che sentite nei ristoranti nel centro di Roma termini come ‘sporchi ebrei’ nel 2014”, uniti a eccessi di orgoglio per l’ebraismo americano. Un film visto in Russia, Cina, Francia e in tantissimi altri Paesi, nonostante gli Stati Uniti in parte ispirassero anche aspetti della comicità del film stesso, sembrava estraneo, tosto da assorbire sull’Atlantico. Solo recentemente la trama del film ha assunto paralleli abbastanza unici con l’ascesa di Trump e con il mondo dell’antisemitismo americano attuale e ha sfondato una porta aperta.
Perché se molti ebrei si sono focalizzati negli ultimi anni sugli eccessi della sinistra, preoccupati dai primi casi di kefiah tra diciannovenni a Berkeley, allo stesso tempo hanno completamente ignorato i veri neo-nazi. Quelli che a Roma esistono in forma di ‘fasci’, ma che sembrano una pallida imitazione adolescenziale, un po’ moderata e italica, paragonati al vero KKK e ai veri gruppi white-nationalist, difensori della purezza della “razza bianca americana”. I discorsi e i video di alcuni di loro sono cose che neanche in un film mal sceneggiato sul nazismo fatto da un regista hollywoodiano si sentirebbero in modi così espliciti. Tra Casa Pound e David Duke c’è la differenza tra Sergio Leone e Tarantino in termine di impatto e violenza. Paradossalmente non aiuta che grazie alle bellissime rivoluzioni culturali del ‘68, alla profondità della nostra cultura moderna, alla complessità di chi può studiare, contraddire, aprirsi al mondo, siamo nel pieno del relativismo assoluto, abbinato alle rabbie dell’antipolitica attuale.
Uscendo dalla dicotomia Italia/America e guardando al paese che ha iniziato involontariamente questo fenomeno a catena di elezioni recenti, l’Inghilterra, l’antisemitismo – che a Londra è tanto – è sempre stato meno legato agli ebrei singoli e più anti-establishment. Al rifiuto dei poteri forti. Viene quindi da chiedersi se sia proprio l’emergere di una visione globale anti-establishment che ha riunito gli elementi peggiori di tanti gruppi che fino a oggi non erano così estremisti. O che tutti questi gruppi hanno tante facce ma quelle che oggi hanno la spotlight siano gli elementi peggiori che forse ci sono sempre stati.
Alla fine bisogna guardare alle cose in altri modi. Nel bene e nel male. Ci sono giorni in cui l’amica che solo due anni fa vedeva le mie vacanze italiane come un mondo a pochi passi da Alba Dorata, ora si dispera per un graffito antisemita sul campo da tennis della sua infanzia, e mi fa pensare a un clima che è cambiato drasticamente. Ci sono giorni in cui ricevo 26 messaggi da un’altra amica, di quelle ipersensibili che vogliono i “safe spaces” nei college, preoccupata che la sua carta da regalo non sia abbastanza “non-denominational” e possa offendere un bambino ebreo, neanche troppo religioso, se sulla carta dei regali di Hanukkah c’è un pupazzo di neve (e non Gesù, Babbo Natale o il paganesimo di Halloween, un pupazzo di neve su carta blu). Anche se gli eccessi di zelo possono essere sinonimo di empatia e comprensione, bisogna lavorare per un mondo dove ci sia una via di mezzo tra il terrore nel vedere il bianco di un pupazzo di neve e quello del cappuccio del KKK.
L’Unione Giovani Ebrei d’Italia (UGEI) è un’organizzazione ebraica italiana. Essa rappresenta tutti gli ebrei italiani di età compresa tra i 18 e i 35 anni. L’organo ufficiale di stampa UGEI è HaTikwa: un giornale aperto al confronto di idee.