Tramutare il male in bene: la vittoria degli israeliani

Fot Zebu

di David Zebuloni

Il 7 ottobre, il giorno della più grande strage della storia d’Israele, quando il governo Netanyahu pareva ancora paralizzato dall’atrocità dell’accaduto e i media nazionali e internazionali ipotizzavano la preparazione di una reazione priva di precedenti da parte dell’IDF all’attacco di Hamas, io ero convinto che, a prescindere del risultato ottenuto dall’operazione militare, Israele aveva già perso questa guerra. Mi dicevo che non vi era conquista militare che potesse oscurare il fatto che 1400 israeliani erano stati uccisi in un giorno e che oltre duecento ostaggi erano tenuti in prigionia a Gaza. Mi dicevo che, anche se tutti gli ostaggi fossero tornati a casa in vita e l’esercito fosse riuscito a cancellare definitivamente la minaccia del terrorismo di Hamas dalla regione, Israele aveva comunque perso la guerra perchè si era fatta trovare impreparata. Era comunque stata invasa a sorpresa. Delle donne innocenti erano comunque state uccise e violentate. Nulla poteva correggere lo sbaglio commesso: Israele aveva perso. Oggi, invece, credo che a prescindere dall’esito dell’operazione militare dell’IDF, Israele ha già vinto questa guerra. O meglio, che gli israeliani hanno già vinto questa guerra. La società israeliana, infatti, aveva tutto il diritto di immergersi nel lutto e di non uscirne più. Come si usa dire da questa parti: “tutti conoscono qualcuno che…”. Ed è vero. In un modo o nell’altro, in Israele tutti conoscono qualcuno che è rimasto ucciso, o ferito, o rapito o che si è miracolosamente salvato dall’attacco di Hamas. Il lutto, pertanto, non è individuale, ma collettivo. Israele, oggi, è un paese in lutto. Gli israeliani, tuttavia, sono riusciti a compiere l’atto più di nobile che, chi si trova in difficoltà, possa mai compiere: unirsi e cercare di tramutare il male in bene. L’aspettativa del tutto legittima era che gli israeliani accusassero il governo in carica per la mancata leadership, cercassero insistentemente un colpevole alla défaillance del sistema di sicurezza e si chiudessero in casa per piangere le perdite. Gli israeliani, invece, con lo spirito che da sempre li definisce, hanno fatto l’esatto opposto.
Al posto di piangersi addosso, hanno chiesto un governo di unità con i partiti dell’opposizione senza cercare colpevoli, hanno aperto le loro case e i loro cuori agli sconosciuti, hanno dato tutto ciò che avevano e che non avevano agli sfollati.
Una quantità tale di volontari, in Israele, non si era mai vista prima. Laici, tradizionalisti, ortodossi e ultraortodossi di destra e di sinistra, nonché ebrei, cristiani, drusi e musulmani: tutti hanno unito le forze per ricostruire ciò che era stato distrutto. Gli ospedali erano e sono tutt’ora invasi dai volontari che girano nei reparti per visitare i feriti, per portar loro del cibo o regalare dei giocattoli ai bambini. E ancora, migliaia e migliaia di signore, nonne e mamme valorose, hanno occupato le cucine dei ristoranti più prestigiosi del paese per preparare del cibo che fosse famigliare ai soldati in guerra.
Che ricordasse loro i sapori di casa. Decine di migliaia di pasti caldi, infatti, sono distribuiti ogni giorno ai combattenti in guerra. E ancora e ancora, centinaia di migliaia di riservisti di ogni età si sono presentati al fronte per difendere la patria senza essere stati convocati, lasciando alle spalle il loro lavoro e a casa le loro famiglie. Così, anche migliaia di ultraortodossi che fino a ieri si rifiutavano di arruolarsi e oggi supplicano i vertici dell’esercito di arruolarli come volontari. Israele ha dunque perso questa guerra a prescindere dal suo esito, poiché inizialmente debole e impreparata di fronte al nemico, ma gli israeliani l’hanno vinta. Eccome se l’hanno vinta. Gli israeliani hanno dimostrato di sapersi unire nei momenti di necessità, mettendo da parte ogni tipo di ostilità. Gli israeliani hanno dimostrato anche di voler santificare la vita e non la morte. Di mettere al primo posto l’uomo, non l’arma. Di essere invincibili poiché guidati dall’amore per se stessi e non dall’odio per il nemico. Gli israeliani hanno soprattutto dimostrato che, a prescindere dal contesto mediorientale, Israele rimarrà sempre un luogo vivo, dinamico, felice. Un luogo dove il bene ha la meglio sul male. E non solo: un luogo in cui il male verrà sempre tramutato in bene. Ora, non rimane altro che vincere l’ultima battaglia. Mi spiego. Quando intervistai Rav Israel Meir Lau, ex Rabbino Capo di Israele sopravvissuto da bambino ai lager nazisti, mi disse una frase che mi rimase ben impressa: “Siamo bravissimi a morire insieme David, ora dobbiamo imparare anche a vivere insieme”. Rav Lau si riferiva proprio a ciò a cui stiamo assistendo in questi giorni. Alla solidarietà straordinaria e mai scontata di cui siamo testimoni nei momenti di grande difficoltà. Alla capacità di mettere da parte le ostilità e operare a favore di un interesse comune: la vita e la sopravvivenza. Gli israeliani, dunque, hanno dimostrato di nuovo, come avevano già fatto in passato, di sapersi unire nelle disgrazie. “Di saper morire insieme”, per citare il saggio rabbino. Così è stato nel 2021, quando 45 ultraortodossi sono rimasti uccisi in un incidente sul Monte Meron e l’intero paese è entrato in lutto. Così è stato nel 2014, un attimo prima che l’Operazione Margine di Protezione avesse inizio, quando tre adolescenti, Eyal, Gilad e Naftali, erano scomparsi e l’intero paese si è mobilitato per cercarli. Presto si è scoperto che i tre innocenti erano stati rapiti e poi uccisi da Hamas. Così è stato nel 1973, nella guerra del Kippur, quando Israele è stata colta di sorpresa e quasi messa in ginocchio dalla coalizione araba circostante. Anche in quella guerra, gli israeliani hanno dimostrato di poter vincere non per la potenza delle loro armi, ma per la forza dei loro spiriti. Che gli israeliani sappiano unirsi nei momenti di difficoltà, è dunque appurato. Che gli israeliani abbiano il temperamento giusto per non farsi sopraffare dalle tragedie, anche. Ora, per l’appunto, rimane un’altra importante sfida da superare: quella del 6 ottobre. Ovvero, quella precedente alla guerra. D’altronde, in un popolo eterogeneo come quello ebraico, un popolo frammentato in gruppi di laici, tradizionalisti, riformati, ortodossi, ultraortodossi, sefarditi e ashkenaziti, è normale che emergano delle ostilità. Non solo in Israele, ma anche nelle comunità sparse nella diaspora. L’ebraismo, forse, è bello anche per questo motivo. Come ha affermato il presidente Isaac Herzog proprio in occasione del 75° anniversario dell’indipendenza: “Il mosaico israeliano, la splendida diversità in cui abbondano discussioni, voci, opinioni, non è una debolezza, ma una forza”. E non dimentichiamo il celebre e sempre attuale proverbio: due ebrei, tre opinioni. Proprio così, la ricchezza di identità e di opinioni è sempre un vantaggio, mai uno svantaggio. Tuttavia, citando di nuovo il saggio Rav Lau, gli israeliani devono ancora imparare a vivere insieme, anche nei momenti prosperi e felici. Devono ancora imparare ad unirsi, non solo nel lutto, ma anche nella gioia. Ed ecco che la storia, proprio come ai tempi della distruzione del secondo Santuario, ci mette di nuovo alla prova. Una prova che, sembrerebbe, gli israeliani stiano superando in modo eccelso. Nonostante i media internazionali siano concentrati su ciò che avviene a Gaza e meno su ciò che avviene in Israele, nello Stato Ebraico è in corso una vera e propria rivoluzione sociale. Per la prima volta dopo molti anni, gli israeliani si sono resi conto di essersi sbagliati, di essersi confusi. Di aver perso di vista il vero nemico (sempre esterno e mai interno) e di essersi fatti la guerra a vicenda senza alcun motivo. Non a caso tutti i sondaggi mostrano un fenomeno molto interessante, a tratti affascinante: la sparizione dei partiti estremi di destra e di sinistra dalla mappa politica israeliana. Già, Israele si sposta al centro. Difatti, mai prima d’ora i partiti di centro avevano ottenuto tanti mandati nei sondaggi. E non è tutto. A un mese dall’inizio della guerra, i vertici dell’organizzazione che ha promosso nell’ultimo anno le manifestazioni contro il governo e i vertici del movimento sionista religioso si sono incontrati per discutere la situazione.
“Ora riusciamo a capire il vostro dolore. Ora riusciamo a guardarvi da un’altra prospettiva. Abbassiamo le armi, abbracciamoci”, si sono detti a vicenda i membri delle due organizzazioni. Un incontro toccante, che ha dato speranza a molti e molti israeliani di credere in un cambiamento sincero e radicale. Un cambiamento basato su un principio semplice: destra e sinistra, laici e religiosi, tutti sono uguali di fronte alla minaccia esistenziale della guerra. O, per rimanere in tema, un cambiamento basato un concetto che oggi va molto di moda sui social: from the river to the sea, Israel will be free. Libera dall’odio e dalle avversioni, unita più di quanto fosse mai stata prima. Dal fiume giordano al mar Mediterraneo, Israele è destinata a esistere, in pace e in armonia, dentro e fuori i suoi confini. Così è stato, così sarà.


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