Tornare o rimanere?
HaTikwa, di Revital Rahmani
Dopo aver finito la mia prima laurea di Comunicazione e Sociologia al Bar Ilan, ho deciso di volare a Londra a continuare i miei studi nel campo televisivo. Sono nata e cresciuta a Milano ma sempre stata legata ad Israele così, una volta finito il liceo, ho deciso di fare l’Alyah.
Mi trovo attualmente a Londra, città dalla quale non posso e non voglio muovervi e, come me, centinaia di altri connazionali coetanei.
Inizialmente nessuno aveva realmente compreso la gravità della situazione, soprattutto a causa del sovraccarico di informazione, che spesso dilagava in una non-informazione e creava confusione. Soltanto poche settimane fa attendevo a braccia aperte i miei genitori che avevano in programma di venirmi a trovare Londra.
Purim, i festeggiamenti, il ricongiungimento familiare.
Con il passare dei giorni, e con l’aggravarsi della situazione a livello mondiale, ci siamo resi conto che non ci trovavamo di fronte ad una semplice “febbre e mal di gola”. Non poter essere vicino ai propri cari in momenti del genere non è mai facile. Si susseguono sentimenti alternanti che vanno dalla paura e l’angoscia alla speranza e ad una ingenua positività da parte della gente intorno a me.
Questa nuova consapevolezza ha portato a un necessario stravolgimento delle percezioni nella quotidianità. Uscire di casa, prendere il treno o la metro, ed allo stesso tempo dover evitare il contatto fisico di ogni tipo.
Mentre la situazione andava ad aggravarsi sempre di più in Italia e nel resto del mondo, Londra sembrava non vivere in modo coscienzioso il dramma del Covid19. Le metro stracolme di persone e il normale svolgimento della vita di tutti i giorni portava gli italiani, come me, ad una condizione di totale scissione comportamentale ed emotiva. Da un lato eravamo consapevoli della gravità della situazione, passando ore e ore al telefono con amici e parenti, a cacciare via le paure che pian piano si fondevano con la solitudine. Dall’altro eravamo costretti a continuare la nostra vita come se nulla stesse accadendo.
In tutto questo non ero sola, come me, amici e amiche condividevano lo stesso stato emotivo: “tornare o rimanere?”. In questi casi ogni giorno è un’incognita.
Tornare in Italia e con l’obbligo di quarantena nella stessa dimora dei propri genitori, oppure rimanere, evitando di prendere aerei e di diventare potenziali portatori del virus?
Da qui a pochi giorni avevo in programma un volo direzione Tel Aviv. Dovevo partire in Israele e festeggiare Pesach con il resto della mia famiglia. Ad eccezione di mio fratello, che è a Londra qui con me, tutta la mia famiglia si trova attualmente in Israele. Tel Aviv e Londra sono per certi versi agli antipodi. Due grandi metropoli, sì, ma estremamente differenti tra loro.
La coscienza collettiva deve sempre venire prima degli egoismi individuali, e dal momento in cui il mio ritorno avrebbe potuto compromettere la salute delle persone che amo- e non solo- ho deciso di rimanere.
Le vacanze semestrali erano ormai alle porte. Amici e amiche da ogni parte del mondo rientravano a casa con la paura di non poter più riabbracciare le proprie famiglie per mesi. Londra continuava ad essere una bolla all’interno della quale la vita continuava a svolgersi nella –quasi- normalità. Qualcuno cominciava timidamente ad uscire di casa con una mascherina che gli copriva il viso, qualcun altro cominciava a prendere quelle distanze di sicurezza-umana.
L’apice è arrivato con Il discorso di Boris Johnson, dove “Immunità di gregge” e “Abituatevi a perdere i vostri cari” erano diventati il motto della sua campagna contro il Covid19. Pochi giorni dopo ritrattato, il discorso di Boris Johnson ha avuto però un impatto psicologico di grande importanza sulla vita di ognuno di noi, e gli ultimi che erano rimasti, hanno deciso così di partire.
In questi giorni di isolamento, lontana da Tel Aviv e lontana da Milano, non riesco a far altro che pensare alla mia comunità, a coloro che non ce l’hanno fatta, a coloro che lottano tra la vita e la morte. I miei pensieri vanno ai miei amici, alla mia famiglia, alle persone che amo – ma non solo. Vanno a tutti quei volti sconosciuti, che in questo momento vivono in quello stato di incertezza e paura che caratterizza le mie giornate. Ai medici, agli infermieri, ai volontari e a tutti coloro che stanno rischiando la propria vita per salvare quella degli altri. Agli emarginati, che oggi, a casa non possono starci. Perché un tetto sicuro dove ripararsi non lo hanno.
In questi giorni di isolamento ho riscoperto la semplicità di un affetto sincero, di una carezza mancata, di un abbraccio non dato. Ho fatto mio il dolore che sta vivendo la mia comunità. A loro va il mio affetto più sincero.
E mentre i pensieri scorrono veloci nella mente, faccio i bagagli, esco di casa e busso alla porta di mio fratello e sua moglie. Insieme è più facile.
L’Unione Giovani Ebrei d’Italia (UGEI) è un’organizzazione ebraica italiana. Essa rappresenta tutti gli ebrei italiani di età compresa tra i 18 e i 35 anni. L’organo ufficiale di stampa UGEI è HaTikwa: un giornale aperto al confronto di idee.