Sukkot: l’abbandono di tutte le certezze
Nei giorni di Sukkot – la festa delle capanne, che inizia il 15 di Tishrì – il popolo ebraico si trasferisce dalle proprie case, solide e sicure, all’interno di capanne fatte di frasche e vegetali, in ricordo di quelle usate dagli ebrei nel lungo peregrinare nel deserto dopo l’esodo dall’Egitto. Simbolo della protezione divina, alcune interpretazioni rabbiniche sostengono che le capanne non fossero materiali, ma delle “nuvole divine” volte a proteggere il popolo dai pericoli esterni.
Lo spostarsi da una casa solida e stabile ad una incerta e fatta di piante, racchiude un profondo significato. Rappresenta l’abbandono di tutte le certezze tangibili, di tutti gli averi, per passare ad un totale affidamento nella protezione divina. Ma non solo: quante differenze esistono tra le mura domestiche e quelle di una capanna? La Sukkà costringe le persone a vivere in un contesto estraneo rispetto al proprio, a mettersi nei panni altrui. Solo in questo modo è possibile sviluppare un’empatia tale da essere più vicini al prossimo. Non a caso, grazie anche all’ampiezza della struttura – costruita con misure specifiche riportate nella Torah – è possibile conoscervi persone nuove, parlare con loro e consumare del cibo assieme. Allora il valore di questa festa si moltiplica, perché non solo ci spoglia dei propri averi, ma ci si mette in condizione di abbattere il pregiudizio. Oltre al precetto di agitare il Lulav (composto di piante vegetali tradizionale della festa), per indicare la onnipresenza divina, un altro fondamentale precetto è quello di – dice la Torah – “essere solamente felici”. Un gioia che arriva alla fine dell’opera di pentimento conclusasi con Kippur, che si materializza in quella socialità prodotta proprio sotto la Sukkà.