Stranieri e residenti: le domande di oggi, gli esempi di Abramo e Muhammad

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Da sinistra: Paolo Sciunnach, Roberto Jarach, Yaya Pallavicini
Da sinistra: Paolo Sciunnach, Roberto Jarach, Baykar Sivazliyan, Yaya Pallavicini

Mercoledì 13 gennaio, presso il Memoriale della Shoah al Binario 21 della Stazione Centrale di Milano e organizzato da Accademia ambrosiana, Accademia Isa e Scuola ebraica di Milano, si è svolto un incontro sul tema della Memoria a cui l’Ugei ha partecipato con il presidente Arièl Nacamulli e il sottoscritto.

Ad aprire i lavori, dopo il saluto di Roberto Jarach, l’articolato intervento di rav Paolo Sciunnach “Ricordiamo per vivere nella giustizia: Abramo e l’accoglienza dello straniero”. Commentando un florilegio di citazioni, rav Sciunnach ha insistito sulla presenza costante, nella Torah, della figura dello straniero. Non affliggerai lo straniero – questo il monito ricorrente – perché stranieri voi siete stati nella terra d’Egitto.

Marc Chagall, "Abramo e i tre angeli"
Marc Chagall, “Abramo e i tre angeli”

E’ il viaggio di Abramo – lech lechà, vai verso te stesso attraverso l’abbandono della tua terra, del tuo paese e della casa di tuo padre – che definisce l’ebreo. Ivrì è colui che ha compiuto il passaggio (la’avor significa “passare”, “attraversare”), colui che è stato capace di divenire straniero. Lo stesso Abramo, d’altra parte, si considera “straniero e residente (gher vetoshav) con voi” (Gn, 23:4). Secondo rav Soloveitchick è condizione propria a ciascun ebreo, a qualsiasi latitudine spaziale e storica, quella di residente, ma anche di straniero: un doppio ruolo ineliminabile dettato dall’assunzione di specificità pratiche e valoriali vissute in una terra condivisa con altri. Lo straniero residente protagonista nella Torah permette d’altronde l’instaurarsi di una responsabilità biunivoca: mia verso lo straniero, dello straniero verso di me. E così la creazione di uno spazio di convivenza civile fondato sulla condivisione dei precetti noachici.

Gli armeni sopravvissuti ai massacri ottomani hanno cercato di fare propria questa idea, secondo il prof. Baykar Sivazliyan, presidente dell’Unione degli armeni d’Italia. E’ l’integrazione stessa a promuovere un processo bidirezionale che è un po’ come il tango: si balla in due, e bisogna cercare di non pestarsi i piedi a vicenda.

Anche a Muhammad – similmente ad Abramo – fu ordinato di emigrare dalla Mecca. Il profeta dell’islam, ha ricordato l’imam e vicepresidente della Coreis italiana Yaya Pallavicini, andrà a fondare una città, la “città”: Medina, e il suo gesto ha preso forma ideale nella figura storica e simbolica dell’egira. Come per Abramo, un abbandono a una ricerca, un’apertura e un ritrovarsi, un allontanamento dalla propria terra e un viaggio verso se stesso.
L’identità, ha insistito Pallavicini, è oggi antidoto all’omologazione e a quella psicosi collettiva di massa che è stato fattore decisivo per il determinarsi dell’esperienza storica della Shoah. Solo facendosi portatori di specificità religiose e culturali e di valori forti, a suo dire, è possibile porsi come interlocutori nello spazio pubblico.

Giorgio Berruto ha studiato filosofia a Pavia. Vive e lavora a Torino
Giorgio Berruto ha studiato filosofia a Pavia. Vive e lavora a Torino


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