Storie di memoria dalla Polonia, storie di resistenza dall’Ucraina
di Viola Turone
Nella notte tra il 23 e il 24 febbraio, mentre Putin ordinava l’invasione dell’Ucraina e i primi carri armati russi oltrepassavano il confine, 150 membri dell’Hashomer Hatzair, movimento giovanile ebraico sionista socialista, stavano raggiungendo la Polonia da tutta Europa. In programma il Masa Le’ Polin, seminario che porta i/le shomrim*ot (membri del movimento) a visitare i luoghi della memoria polacchi, in un percorso che va dalle città che un tempo ospitavano fiorenti comunità ebraiche ai campi di concentramento e alle fosse comuni. Eravamo in fila per il check-in quando abbiamo visto le prime notizie, verso le quattro del mattino, e più tardi, aspettando il secondo volo durante uno scalo ad Amsterdam già leggevamo articoli sui possibili sviluppi della guerra. Sapevamo che non saremmo stati direttamente in pericolo in Polonia, ma la sensazione di avvicinarsi al luogo del conflitto non era certamente rassicurante.
La mattina stessa in cui siamo arrivati a Cracovia, camminando verso il centro città, abbiamo incrociato un corteo di ragazzi che manifestavano contro la guerra, sollevando bandiere gialle e blu, cartelli con slogan e immagini che raffiguravano Putin come Hitler. È stato chiaro fin da subito che il nostro viaggio, già emotivamente impegnativo per il suo contenuto, avrebbe avuto un altro strato di complessità: parlare di guerra e di occupazione quando a pochi chilometri da noi, oltre il confine, era proprio questa la realtà che stava prendendo forma. È importante sottolineare che i paragoni tra gli eventi storici sono sempre semplificazioni, che rischiano di sminuire la portata degli eventi tra loro paragonati, privandoli del loro contesto. Ciò non toglie che ci sia una certa universalità nella sofferenza di dover lasciare la propria casa, di vedere distrutta la propria città, di perdere i propri cari, e dunque su questo abbiamo riflettuto nei nostri giorni in Polonia. Il nostro viaggio non è stato direttamente influenzato dalla situazione ucraina, il nostro programma non ha subito alcun cambiamento, ma nei cinque giorni che abbiamo passato in Polonia, i primi cinque giorni della guerra in Ucraina, abbiamo più volte assistito a eventi che hanno reso concreto ciò che leggevamo sui quotidiani. La prima notte in albergo a Cracovia abbiamo incrociato una ragazza ucraina da poco fuggita dal suo paese, che da due giorni dormiva per strada, e nei giorni successivi, nelle varie stazioni di servizio in cui ci fermavamo col pullman tra una città e l’altra, abbiamo assistito all’arrivo di grandi gruppi di rifugiati accalcati fuori dagli autogrill. Nel nostro piccolo facevamo il possibile per aiutare, per esempio dando loro il cibo che ci avanzava, e contemporaneamente l’Hashomer Hatzair mondiale si attivava per portare aiuto ai suoi membri bloccati in Ucraina.
Il nostro movimento ha infatti una sede a Kiev, una a Kharkiv e una a Leopoli, e mentre noi assistevamo alla guerra da fuori, i nostri compagni ucraini la vivevano sulla propria pelle. Con l’escalation della tensione tra la Russia e l’Ucraina, l’Hashomer si è mossa immediatamente per aiutare i membri ucraini, le loro famiglie e le persone a loro vicine. Con l’aiuto dell’organizzazione, alcuni di loro sono riusciti a lasciare Kharkiv ancora prima che scoppiasse la guerra e a raggiungere la Polonia, mentre altri nostri chaverim*ot (letteralmente ”compagni” di Hashomer, o “amici”) sono rimasti nelle loro città e si sono rifugiati nei sotterranei dei palazzi. È partita immediatamente una campagna di raccolta fondi internazionale che in poche ore ha raggiunto i primi risultati, consentendo al movimento di mobilitarsi per lo spostamento dei primi carichi urgenti di indumenti e cibo, generatori e medicinali.
Fin dal primo giorno della guerra è stato creato, dai coordinatori dei kenim (il nome ebraico delle sedi dell’Hashomer, letteralmente “nidi”) ucraini un gruppo whatsapp, attraverso il quale i ragazzi e le ragazze nei rifugi sotterranei hanno iniziato a inviare ai membri dell’Hashomer in tutto il mondo diari e resoconti delle loro giornate bloccati sotto le bombe. Ogni sera, dal nostro hotel, ricevevamo le storie di ragazzi come noi, la cui vita è stata sconvolta da un giorno all’altro dalla guerra che tuttora devasta il loro paese. Dopo ore passate a riflettere sulle diverse forme di Resistenza attraverso l’avversità, ogni sera ne ricevevamo degli esempi concreti. Pur consapevoli del fatto che ogni avvenimento storico è unico nelle sue ragioni e nelle sue cause, questi messaggi risuonavano come un’eco emotiva.
Tuttora, a viaggio concluso, lontani dalla Polonia e dalla confinante Ucraina, riceviamo ogni giorno questi messaggi. Valera, del Ken di Karkhiv, manda la foto di un missile atterrato in quello che sembra un parco giochi vicino al loro rifugio, e la stessa sera Katya, in fila da ore al confine con la Polonia confessa che se non fosse per le sue sorelle resterebbe in Ucraina ad aiutare chi ne ha bisogno. Altri ragazzi e ragazze condividono le loro giornate, il suono delle sirene, la paura, ciò che fanno per passare il tempo. Ci raccontano delle notti senza sonno, del rumore delle finestre che tremano, del timore per la salute dei parenti più anziani e dei giochi che si inventano per distrarre i più piccoli. “Non sappiamo quale sia la data di oggi, o che giorno della settimana sia” scrive Lina il 2 marzo, “ma sappiamo esattamente che giorno della guerra sia.” Nel suo messaggio esprime la consapevolezza che la sua vita non sarà mai più quella che era prima del 23 febbraio, ci dice che le restano due cose: la speranza che tutto finisca e l’istinto di aiutare chi ha intorno.
Anche noi, che dobbiamo ancora elaborare i sentimenti suscitati dal nostro viaggio, cerchiamo almeno di dare loro un significato per il presente: niente è uguale e confrontabile, nei diversi periodi storici, tranne l’indifferenza. E siccome non possiamo restare indifferenti alla sofferenza dei nostri chaverim, continuiamo a cercare modi per aiutarli. La nostra raccolta fondi è ancora attiva, il movimento ha portato diversi carichi fino a destinazione, ma sappiamo ora che l’emergenza sarà lunga e che il nostro aiuto non potrà esaurirsi in questi primi giorni. E abbiamo un compito in più: i nostri compagni e le nostre compagne ci chiedono di diffondere le loro parole, la loro sofferenza e la loro forza ai media occidentali, affinché l’attenzione rimanga alta sulla verità della situazione. Hanno bisogno di sostegno economico e mediatico, e noi siamo qui per darglielo.
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