Shoahwashing

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HaTikwa, di Filippo Tedeschi 

Il fatto di cronaca è recente: prorio durante le commemorazioni per il Giorno della Memoria a Torino, nell’androne di un palazzo in cui vive una donna di origini ebraiche, compare l’ennesima scritta antisemita. L’ennesima, sì. Perché solo pochi giorni prima un’altra scritta era comparsa a Mondovì, in provincia di Cuneo e qualche giorno dopo è risuccesso a Bologna. Non che noi ebrei italiani ci stupiamo più di tanto, sia chiaro: tutto rientra nelle scene di ordinario antisemitismo come rilevato dalle più recenti inchieste statistiche europee e nazionali che vedono il fenomeno in crescita.

La faccenda assume però connotati “divertenti”: se da più tempo eravamo abiutati al doppio standard di quella destra che da un lato strizza l’occhio ad Israele, squisitamente in chiave antislamica (si c’è veramente qualcuno che pensa che il modello per la guerra santa contro l’Islam sia un paese con oltre il 20% di popolazione musulmana), eravamo anche soliti vedere più sfumati i contorni di quella zona grigia di certa sinistra, in particolare movimentista, la quale dietro allo slogan “si può essere antisionisti senza essere antisemiti” era pronta a scendere in piazza cartelli alla mano dichiarando lo Stato Ebraico come occupante da Haifa a Eilat, da Tel Aviv a Gerusalemme senza fare il minimo distinguo tra zona e zona. Il tutto condito da simpatici grafici colorati in cui dimostrano che cent’anni fa i palestinesi governavano sul 100% del territorio (ah sì? Ma dove?) e che pian piano gli immigrati ebr… hem sionisti abbiamo preso il controllo della quasi totalità della regione.

Questa retorica, pur sempre presente all’interno di quel mondo, è però aumentata verticalmente in corrispondenza della seconda intifada, del ritiro dalla Striscia di Gaza e con la fine della guerra del Libano del 2006. Sostanzialmente da quando Israele non si è più trovato seriamente coinvolto in una guerra aperta contro un’altro Paese confinante e l’unico fronte critico rimaneva quello palestinese.

Torinamo però allo slogan di partenza: “si può essere antisionisti senza essere antisemiti”. Non è uno slogan detto a caso e lo voglio dire in tutta onestà, raramente è sbandierato in malafede. Se il doppio standard della destra è palesemente di comodo, quello di questa specifica sinistra è quasi sempre genuinamente ideologico. Talmente ideologico da celare agli occhi del militante di turno la difficile applicazione del suo assunto. Questo modo di parlare e pensare è tipico di quella sinistra movimentista legata ad una Memoria, seppur un po’ colorita, di certo partigianato. Prova ne è che da quella esperienza storica, soprattutto per quanto riguarda la questione palestinese, si è subito apropriata di quel lessico della seconda guerra mondiale che disgraziatamente e così collegato all’esperienza delle principali, ma non uniche, vittime di allora. Così nasce la “diaspora” palestinese, la Striscia di Gaza diventa un “lager”ed i giovani soldati israeliani di terza o quarta generazione sono ancora delle “forze d’occupazione”. I palestinesi hanno gradito e hanno iniziato ad usare questo linguaggio anche loro. L’obbiettivo più o meno velato è però chiaro: suscitare nell’uditorio una più dura reazione di disgusto. “Ma come; proprio loro che hanno subito la shoah poi si comportano allo stesso modo con i palestinesi?”. Ma loro chi? Gli ebrei o i sionisti?. “Ma siamo antisionisti, non antisemiti”.

Chi ha avuto la pazienza di leggere sin qui si chiederà cosa c’entra tutto questo discorso con i graffiti antisemiti da cui siamo partiti. Eccovi subito la risposta. Nella sera del 4 febbraio, a Torino, proprio quella sinistra movimentista è scesa in piazza su invito del coordinamento Progetto Palestina in solidarietà alle vittime dei recenti atti di antisemitismo rivendicando la loro ferma contrarietà ad ogni forma di razzismo e antisemitismo. Parliamo degli stessi movimenti che pensano che l’unico modo di aiutare i palestinesi sia quello di dedicare il loro tempo demonizzando la condotta dello Stato ebraico in qualsiasi campo. Così oggi l’accusa è di pinkwashing perché difendi i diritti dei gay solo per coprire gli orrori commessi ai poveri palestinesi, domani l’accusa è di Aidwashing perché vai dai terremotati dell’Emilia, dalle vittime della catastrofe di Haiti e del tifone nelle Filippine per apparire bello agli occhi del mondo.

Così nasce anche il veganwashing (https://www.mintpressnews.com/vegan-washing-israel-veganism-palestinian-oppression/262707/) (sic!) ed il technologywashing, perché se inventi una macchina che crea acqua potabile partendo dall’aria, non lo fai di sicuro per aiutare l’umanità, ma solo per coprire le tue infinite barbarie. E allora sapete che c’è? Oggi inventiamo anche il shoahwashing, che è quella pratica di preoccuparsi tanto della Memoria degli ebrei morti, per poi sparare a zero sugli ebrei vivi. E attenzione, non vale la regola che ci sono anche gli “ebrei buoni”, i vari Moni Ovadia e l’allegra combricola della rete degli ebrei contro l’occupazione. Anche la Lega di Salvini ha eletto un senatore nero e l’ex ministro Fontana aveva un amico omosessuale, ma non basta.


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L’Unione Giovani Ebrei d’Italia coordina ed unisce le associazioni giovanili ebraiche ed i giovani ebrei che ad essa aderiscono.


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