Shoah e testimonianza: rendere dicibile l’indicibile

foto Cecio e Joelle

di Cesare Terracina e Joelle Sasson

La Shoah è sicuramente un unicum nella storia dell’umanità. La psicoanalista Egidi Morpurgo (2007) spiega infatti come non ci sia alcuna motivazione di tipo territoriale, politico o militare che possa davvero spiegare questo tragico evento e dare un senso a quanto accaduto: lo sterminio sistematico di un popolo, quello ebraico, organizzato tramite una procedura di profonda disumanizzazione delle vittime. Attraverso i campi di concentramento – e ancor prima con le Leggi razziali – si è eliminata ogni forma di iniziativa e autonomia personale, ogni espressione di libertà e indipendenza, fino quasi all’annullamento di ogni traccia rimanente di identità. Questo era lo scopo, ad esempio, del tatuaggio che veniva marchiato sul braccio degli internati: cancellarne simbolicamente il nome, riducendoli a mere matricole. Ad aver reso possibile il trauma della Shoah, dunque, è stata una propaganda, particolarmente efficace, atta a ridurre gli individui – poi mandati ai campi – a delle “figuren”, termine tedesco che indica esseri inanimati, senza vita, privi di identità, a tal punto da non meritare neanche il titolo di “persone” (Bauman, 1989; Mucci, 2014). Ma com’è umanamente stato reso possibile tutto questo? Solo guardando alla vittima come ad un oggetto, e non più come ad un soggetto, si riesce a non provare più alcuna empatia nei suoi confronti, ottenendo quella che Baron-Cohen (2011), seppur in un altro contesto, ha indicato come “erosione empatica”, cioè l’azzeramento della possibilità di vedere nel prossimo un lato umano che lo renda “simile a me”. Non è un caso che i sopravvissuti alla Shoah ne abbiano spesso risentito anche dal punto di vista strettamente sintomatologico. William Niederland, psicoanalista tedesco, è stato il primo a parlare della “Sindrome del sopravvissuto” (1968) riferendosi a una costellazione di sintomi individuati nei superstiti della Shoah anche decenni dopo la loro liberazione: ansia, depressione cronica, tendenza all’isolamento, disturbi del sonno e varie problematiche di forma psicosomatica. Krystal (1968) ha poi parlato di una “regressione dell’espressione di affetto”, cioè della difficoltà dei sopravvissuti nel verbalizzare e differenziare gli affetti e i sentimenti in modo adeguato. Forse questa difficoltà ha contribuito a quella che molti autori, tra cui Danieli (1984), hanno chiamato “cospirazione del silenzio”, riferendosi ai primi decenni dopo la Shoah, quando era complicato raccontare quanto accaduto: in parte perché umanamente difficile per i sopravvissuti, in parte perché la società non era ancora pronta a far da contenitore emotivo ad esperienze così traumatiche dovute alla crudeltà dell’uomo. Testimoniare è diventato dunque possibile soltanto col tempo. Eppure, per un trauma di così grandi dimensioni e con così tante implicazioni sulla società, sembrerebbe che la testimonianza dei sopravvissuti abbia giocato un ruolo fondamentale nella sua elaborazione. Un processo, questo, che è dovuto passare in primis attraverso il riconoscimento della Shoah come evento “reale”. Non significa che questa non abbia avuto e non abbia ancora delle corrispondenze interne, intrapsichiche, ma che per elaborare esperienze così atroci si debba necessariamente partire col dargli una valenza storica e narrativa, riconoscendole dunque come eventi realmente accaduti, i cui fatti devono essere ricostruiti con attenzione (vedi ad esempio Bohleber, 2007). Solo questo permette al superstite un attento e delicato lavoro del lutto, con conseguenze positive non solo sulle generazioni che hanno direttamente vissuto il trauma, ma anche su quelle successive: il tema della trasmissione intergenerazionale del trauma della Shoah è esistente, e ampiamente discusso in letteratura. Ciò che condividono i diversi ricercatori, oltre alla complessità dei meccanismi di trasmissione – non sempre facili da cogliere – è che tale fenomeno sia più evidente quando il trauma passato non ha subìto nessuna evoluzione, rimanendo sepolto, inespresso e non elaborato. Il fantasma di un’esperienza indicibile rischia di proliferare nella fantasia e nell’immaginario incerto, rendendo più vulnerabile anche chi quella esperienza non l’ha vissuta in prima persona. In tal modo, si ritiene plausibile una trasposizione dell’esperienza traumatica nelle generazioni successive, vittime del diniego e del silenzio delle precedenti. La testimonianza, quindi, si rivela un’opportunità preziosa per elaborare e comprendere, uno strumento terapeutico, se così vogliamo chiamarlo, capace di rompere la catena disfunzionale della trasmissione. A tal proposito, risulta essere particolarmente rilevante la trattabilità del tema della Shoah all’interno delle comunità ebraiche italiane: le testimonianze dei sopravvissuti hanno infatti trovato terreno fertile nella volontà comunitaria di ascoltare, ricordare e diventare veicolo di testimonianza indiretta. Questo ha permesso ai sopravvissuti di ricostruire quel tessuto di fiducia precedentemente perduto, quella connessione tra io e l’altro che si era spezzata (Laub, 1992). La testimonianza non è solo un richiamo al passato, ma una forza viva, che permea il presente e plasma il futuro.

BIBLIOGRAFIA

  • Baron-Cohen, S. (2011). La scienza del male, trad. ital. Raffaello Cortina Editore, Milano.
  • Bauman, Z. (1989). Modernità e olocausto. Il Mulino, Bologna, 28-34.
  • Bohleber, W. (2007). Ricordo, trauma e memoria collettiva: La battaglia per il ricordo in psicoanalisi. Rivista di psicoanalisi, 53(2), 367-394.
  • Danieli, Y . (1984). Psychotherapist’s participation in the conspiracy of silence about the Holocaust. Psychoanalytic psychology, 1(1), 23.
  • Krystal, H. (1968). Massive psychic trauma. International Universities Press
  • Morpurgo, V. E. (2007). Etica della responsabilità e psicoanalisi nel dopo-Auschwitz. Rivista di Psicoanalisi, 53(2), 515-527.
  • Mucci, C. (2014). Trauma e perdono. Una prospettiva psicoanalitica intergenerazionale.
  • Niederland, W. G. (1968). Clinical observations on the “survivor syndrome”. International Journal of Psycho- Analysis, 49, 313-315.
  • Laub, D. (1992b), “An event without a witness: Truth, testimony and survival”. In Felman, S., Laub, D., (a cura di), Testimony. Crises of Witnessing in Literature, Psychoanalysis, and History. Routledge, New York and London


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