Rosh HaShanà e Yom Kippur, un cammino verso il rinnovamento spirituale

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di Sara Menascì

In occasione di Rosh Ha Shanà, il Capodanno ebraico, tra le famiglie ebraiche romane, e non solo, è tradizione piantare diverse varietà di semi – grano, mais e talvolta lenticchie – come simbolo di buon auspicio per l’anno che verrà. Quei germogli cresciuti vengono poi utilizzati per adornare la tavola imbandita a festa per l’occasione. Rosh Hashanà è una delle festività più solenni della religione ebraica, Yom Tov (giorno buono), in cui è considerato precetto – Mitzvà – fare pasti gioiosi. La cena è ricca di pietanze simboliche: zucche, porri, barbabietole, fagioli bianchi, pesce, mele, melagrane, datteri e dolcissimi fichi, il tutto accompagnato da abbondante miele. Ogni elemento del banchetto è un augurio per l’inizio di un nuovo anno prospero. C’è comunque un significato più profondo dietro questa festa così solenne ed emotivamente sentita, che segna la testa dell’anno ed è anche un momento che influisce sul giudizio a cui ogni persona si sottopone davanti al Signore. A ognuno il proprio destino, come un gregge che passa davanti al proprio pastore, che le conta una a una. Per questo Rosh Hashanà è detto sia Yom HaDin, il giorno del giudizio, sia Yom HaAzikaron, il giorno della memoria, in cui si ricorda il sacrificio di Isacco e il giorno in cui il Signore ha completato la creazione del mondo. Perciò l’atmosfera di preparazione e devozione che precede il Capodanno ebraico è palpabile e coinvolge anche coloro che solitamente sono più distanti dalle celebrazioni. Una folla elegante si raduna nelle sinagoghe, desiderosa di ascoltare il suono dello Shofar – corno di montone – che attribuisce alla festa un terzo nome: Yom Teruah, il giorno del suono. Fra le particolarità più interessanti, c’è sicuramente il Tashlich. Una cerimonia durante la quale gli ebrei svuotano le proprie tasche o agitano i lembi degli abiti oppure gettano sassi in un corso d’acqua per simboleggiare il desiderio di liberarsi dai propri peccati. Al termine di Rosh Ha Shanà iniziano poi i Yamim Noraim, i giorni terribili, dieci giorni di profonda riflessione, pentimento e riconciliazione con Dio e con il prossimo che culminano con lo Yom Kippur, il giorno dell’espiazione. Alla sua vigilia, le famiglie si ritrovano per la Seudat HaMafseket, l’ultimo pasto prima del lungo digiuno che dura dal tramonto fino a quello della sera successiva, per un totale di 25 ore. Durante il digiuno è proibito mangiare, bere, avere rapporti intimi e indossare calzature di pelle. Tra i Sefarditi – ebrei di origine spagnola – è diffusa la tradizione di vestirsi di bianco per simboleggiare la purezza d’animo, richiamando le parole del profeta Isaia: “Anche se i vostri peccati fossero scarlatti, diventeranno bianchi come la neve” (Isaia 1:18). Il popolo ebraico si dedica completamente alla Teshuvà, il ritorno a Dio, immergendosi nel pentimento e nella riconciliazione spirituale. È un momento di grande solennità che unisce l’intera comunità, impegnata a iniziare il nuovo anno con rinnovata consapevolezza. L’augurio per un anno buono abbraccia tutta la diaspora e chi risiede in Israele, con il profondo desiderio che tutti gli ostaggi possano presto fare ritorno a casa e riabbracciare le loro famiglie.

 

Shanà tovà e Hatimà tovà da tutta la redazione di Hatikwa!


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