Realpolitik del Medio Oriente – Perché Israele deve continuare a combattere il terrorismo di Hamas

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Chiedere a Israele di cessare il fuoco contro il terrorismo di Hamas significa chiederle di venir meno al principio della Ragion di Stato, secondo cui ogni Paese sovrano ha il dovere di garantire la sicurezza dei propri cittadini. Rinunciarvi vorrebbe dire esporsi ad un pericolo esterno tale da far interrompere il rapporto di fiducia circolare tra chi governa e chi è governato, tra chi detiene il potere e chi vi rinuncia a patto che la propria integrità venga sempre preservata contro chi la minaccia. Neutralizzare Hamas, dunque, equivale a garantire quella stessa ricerca di sicurezza che storicamente ha spinto l’uomo ad abbandonare lo Stato di natura, dove vigeva l’unica legge della supremazia, per entrare lo Stato civile, dove i rapporti sociali soggiacciono al rispetto della legge.

Mentre presidia i propri confini, Israele parla oggi a tre entità diverse. La prima, ai terroristi stessi. Lo Stato ebraico ha dimostrato più volte che la propria difesa sia capace di arrivare forte e decisa indipendentemente dal tempo richiesto. La seconda, ai Paesi nemici circostanti. Colpire Hamas significa dimostrare ai propri avversari quanto la defiance del 7 ottobre non significhi altresì debolezza di uno Stato che resta, comunque, una della forze più all’avanguardia nel mondo. La terza, al Popolo di Israele. Non solo ai cittadini, a cui deve trasmettere fiducia per mantenere stabilità interna, ma a tutti gli ebrei del mondo la cui sicurezza dipende dalle sorti d’Israele. La risposta funge da deterrente contro chi crede di poter impunemente attaccare gli ebrei con la stessa semplicità del passato.

Tutto questo non preclude il dovere di tenere sempre aperta la porta della diplomazia. Israele lo sta facendo, ancor di più con gli Accordi di Abramo, ma la conditio sine qua non affinché la pace si allarghi anche coi palestinesi sta nel fatto che l’interlocutore non possa, e non debba, essere un gruppo terroristico. La chiave del conflitto, infatti, è insita nell’autodeterminazione dei civili palestinesi rispetto ad Hamas, fino alla costruzione di uno Stato di diritto con cui procedere alla normalizzazione dei rapporti. Allora la Ragion di Stato resterà solo una necessità formale e non più uno strumento concreto con cui dover continuare a garantire il diritto alla difesa e all’esistenza dello Stato d’Israele.

Esiste una sottile differenza fra la difesa di uno Stato e la vendetta politica che oggi qualcuno incrimina a Israele. Mentre la prima è proiettata a smantellare il terrorismo col fine di stimolare la nascita di una leadership civile e quindi raggiungere una potenziale pace, la seconda non ha alcun fine costruttivo se non quello di mostrare l’efficacia militare di cui si dispone. Una scelta, quest’ultima, che Israele ha adottato ufficialmente una sola volta dopo uno dei momenti più bui della sua storia: la Strage di Monaco 1972. L’operazione “Ira di Dio”, organizzata dall’allora premier Golda Meir, aveva la specifica finalità di dimostrare quanto Israele fosse capace di arrivare a chiunque bramasse la sua distruzione nel mondo. Quella di oggi non è vendetta, ma l’inderogabile necessità di proteggere sia la propria integrità che quella di tutto l’occidente per cui Israele combatte.

Lo scorso giorno, il presidente Biden ha consigliato al premier Netanyahu di non commettere lo stesso errore degli Stati Uniti in Afghanistan dopo l’11 settembre. Sebbene il consiglio di un alleato sia sempre sincero e ben accetto, le due realtà sono diverse per un semplice motivo geografico: Kabul non è distante da Washington come Gaza lo è da Gerusalemme. Gli israeliani vivono una minaccia porta a porta con Hamas che il 7 ottobre ha raggiunto il punto di non ritorno. Una data spartiacque da cui Israele dovrà rispondere per assicurare la propria esistenza e Ragion di Stato.

 


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