Quando il ballo si fa militante: va in scena a Roma “Ghetto” di Mario Piazza

ghetto

ghettoIl giorno 7 febbraio al Teatro Eliseo di Roma è stato rappresentato “Ghetto”, uno spettacolo di danza portato in scena dal coreografo e regista Mario Piazza con gli studenti dell’Accademia Nazionale di Danza. Questo è, come già assunto da un articolo di Pagine Ebraiche del mese scorso, uno schiaffo a un razzismo e antisemitismo oramai sempre più dilaganti. Siamo soliti considerare strumenti di divulgazione o conoscenza solo testi scritti o documentari televisivi ma questa volta abbiamo di fronte  un ballo che si rende militante e che tenta di esprimere come può le sofferenze di una vita.

Le tematiche affrontate spaziano dalla persecuzione razziale a quella sessuale e religiosa e al conseguente stato di emarginazione e discriminazione che procurano a chi ne è vittima. Con un sincretismo musicale che vede il compositore serbo Goran Bregović accompagnato da motivi kletzmer l’opera si rende portavoce di una forza vitale profonda e ancestrale. L’intensità dell’ebraismo prorompe in tutta la sua essenza fin dalle prime scene in cui i due ballerini, guidati dall’Hatikwà, si lasciano andare sul palcoscenico.

Mario Piazza
Mario Piazza

Mia intenzione è accennare quel poco che basta sulla struttura e sul messaggio dell’opera, già ben affrontati su Pagine Ebraiche, soffermandomi invece su quali possano essere le ragioni che hanno reso il pubblico così coinvolto. Parte del merito va ai temi trattati in grado di suscitare interesse per un passato che si presenta sempre dietro l’angolo e che mostra radici ben piantate.  Ma al contenuto si unisce la forma che agli occhi risulta spesso gradita. Le gonne colorate delle ballerine, unite al suono della musica, si completano creando perfetta armonia. Le luci proiettano sul muro sagome ben definite creando una strana corrispondenza con i corpi su un palco privo di scenografia.

Ciò che conta è la danza, i colori e il ritmo. Lo spettatore capisce che ciò che ha davanti agli occhi gli appartiene, accomunandolo a colui che gli siede accanto o forse a tutto il pubblico in sala perché, per quanto un’opera possa parlare diverse lingue, ve ne è una capace di dialogare con tutti, indistintamente.

Hatikwà, ovvero la Speranza, è il messaggio che l’opera intende esprimere, valicando ogni confine spaziale o limite temporale. Questa è rappresentata da una ragazza di celeste vestita che si mostra all’inizio e alla chiusura dell’opera, conferendole circolarità. Dove finiscono le parole inizia la musica e dove non arriva questa c’è il ballo. Il tutto termina con ripetuti applausi che fanno ben intendere che il messaggio è stato colto.

Marta Spizzichino, di Roma, studia filosofia alla Sapienza
Marta Spizzichino, di Roma, studia filosofia alla Sapienza


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