Pesach: “Un popolo unito è un popolo libero”
di David Di Segni
Il significato simbolico che si attribuisce comunemente alla festa di Pesach è quello della libertà – liberazione, con riferimento a quella conquistata dagli ebrei dopo quaranta anni di schiavitù in Egitto. Il tutto, come ricorderemo, reso possibile dalla mano di Dio che operò attraverso la figura di Moshè, il più grande profeta e leader del popolo ebraico. Il nome Moshè significa “salvato dalle acque”, e fu attribuitogli da Bathia, figlia del Faraone, che lo tirò fuori dalla cesta galleggiante sulle acque torbide del Nilo, dov’era stato lasciato dalla madre Yocheved per sfuggirlo alla ferocia del tiranno d’Egitto che aveva decretato la morte dei maschi ebrei alla nascita.
È curioso come si invertano i ruoli: colui che è stato salvato diventa il salvatore del proprio popolo. Una figura misteriosa, umile, ma soprattutto umana con i suoi dubbi e le sue incertezze, che tuttavia vengono meno nel momento della chiamata del Signore, alla quale risponde prontamente “eccomi”, come fosse stato in attesa da tutta la vita. La Torah dice di lui che avesse la “bocca pesante” (Kavèd Pe’), ed i rabbanim hanno fornito due possibili spiegazioni: la prima, che Moshè fosse balbuziente e, pertanto, veniva accompagnato dal fratello Aròn davanti al Faraone; la seconda, che Moshè “pesasse le parole”, ed era dunque a conoscenza del vero significato e potere che queste potessero sprigionare. Un insegnamento quanto più vitale. In un mondo vessato dalla violenza, spesso quella verbale, è necessario conoscere il potere delle parole, in grado sia di infliggere dolore che di alleviarlo. Pesach tuttavia ci ricorda anche di essere come Moshè e suo fratello, “l’uno la forza dell’altro”, e di non screditare le nostre debolezze come un limite, bensì come un’opportunità. La collettività, il sostegno, il porgersi l’aiuto reciproco con umiltà e senza sfida: solo così potremmo uscire dal male e diventare liberi.
Un popolo unito è un popolo libero, il che non significa essere tutti uguali e senza diversità, bensì unire le proprie peculiarità al servizio di quella comune indipendenza che ogni giorno, in quanto ebrei, dobbiamo conquistare. Uniti come lo fummo uscendo dall’Egitto, solo allora ci potremmo meritare, di nuovo, le tavole della legge che simboleggiano la nostra “Costituzione”, e dunque la nostra emancipazione. Pesach segna “una liberazione fisica e psicologica”. Inevitabilmente fisica, ma perché psicologica? La condizione fondamentale affinché la Torah potesse essere donata era la libertà, ma il popolo ebraico si trovava ancora in schiavitù. Allora sorge spontanea la domanda: perché gli ebrei non l’hanno ricevuta non appena usciti dall’Egitto? Perché era sì necessario essere liberi, ma non solo fisicamente. Nell’Egitto gli ebrei scesero fino al penultimo strato di impurità (se ne contano in tutto cinquanta) e, dall’Esodo per quarantanove giorni, che corrispondono a quelli dell’Omer, dovettero risalire tutti gli strati fino a raggiungere l’ultimo tassello: la libertà psicologica e spirituale. Infatti, sette settimane dopo Pesach, cade Shavuot, la festa in cui ricordiamo la donazione della Torah.
Possa questo Pesach essere di liberazione dal male e dalla malattia. Torneremo presto ad abbracciarci attorno alle tavole del Seder, uniti come sempre è stato, e come sempre sarà nella storia del popolo ebraico. Hag Sameach, di cuore, a tutti.
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