Israele-Iran, perché sostenere lo Stato Ebraico non consente (più) zone grigie

HaTikwà (R.Mieli) – Gli ultimi anni sono stati caratterizzati da una serie di radicali cambiamenti nella situazione mediorientale, e mentre l’Europa si è volontariamente allontanata da una posizione di equidistanza nei confronti di Israele, gli equilibri geopolitici e le alleanze nella regione hanno subito un processo di inversione di cui non si può più non tenere conto. Quando si osserva una mappa del Medio Oriente, il primo punto interrogativo che risalta agli occhi è la dimensione di Israele rapportata alla sua rilevanza nel contesto internazionale. Come comunità ebraica in Italia e nel mondo ci siamo sempre occupati di difendere Israele dalle principali minacce che circondano il Paese sin dalla sua fondazione: il terrorismo palestinese e i paesi arabi circostanti. La situazione geopolitica del Medio Oriente è cambiata a tal punto che si è arrivati a definire Giordania ed Egitto, principali veicoli delle più sanguinose guerre condotte contro Israele, alleati, e Paesi lontani con i quali Israele è privo di contese territoriali di alcuni tipo, come Iran e Turchia, nemici. Anche durante gli anni di escalation che hanno portato alla nascita di uno Stato Islamico, Israele ha continuato a considerare la peggiore minaccia Hezbollah, che pure si estende all’interno di un territorio infinitamente più piccolo di quanto non fatto dall’Isis nei periodi di maggior espansione. Tutto questo ha creato, negli anni, molta confusione all’interno delle comunità ebraiche che fanno fatica a comprendere in che modo Israele stia agendo sia sul piano della politica internazionale che sul piano della geopolitica.
Tutta questa confusione deriva dall’idea che Israele, prima sul piano cronologico che ideologico, ha saputo anticipare i tempi, individuando prima quali Paesi si sono avvicinati, quali allontanati, e quali rappresentano una minaccia esistenziale – ben diversa da una piccola minaccia terroristica. “Iran” è la parola chiave di questo ragionamento: la teocrazia sciita è considerata la più imponente minaccia che incombe contro Israele, e proprio sulla retorica anti israeliana essa ha costruito il proprio “successo”. Sebbene, infatti, la storia di Israele sia caratterizzata da guerre e conflitti di ben altra provenienza, Teheran nel corso degli ultimi anni si è concretizzata come minaccia talmente rilevante da “costringere” i vecchi nemici di Israele a cercare proprio la cooperazione dello Stato Ebraico. Mentre Paesi come Egitto e Giordania hanno rafforzato partnership su diversi piani, dal settore energetico alla sicurezza, dallo sviluppo alla cooperazione contro le cellule Isis presenti nei Sinai, perfino l’Arabia Saudita – che ha sostenuto il terrorismo palestinese per decenni – si è fatta da parte riconoscendo in Israele un modello sociale ed economico talmente sviluppato da rappresentare l’unico esempio di benessere in una regione di tumulti.
Il riconoscimento del successo di Israele ha attraversato gli oceani giungendo, inoltre, anche in regioni del mondo tendenzialmente ostili nei suoi confronti in particolare in Africa Centrale e il Sud America. La tecnologia prodotta in Israele è stata infatti impiegata, grazie a incredibili collaborazioni, per combattere l’ebola, per costruire sistemi di irrigazione che impedissero alla siccità nordafricana di distruggere le coltivazioni, per stanare e sconfiggere definitivamente le Farc in Colombia, per salvaguardare la sicurezza di atleti e spettatori durante le Olimpiadi del Brasile. Insomma, tutte le difficoltà che Israele ha affrontato nei suoi settant’anni di vita, dalle problematiche di sicurezza – territoriale ma anche informatica – e del terrorismo islamico fino alla sicurezza alimentare e allo sviluppo della microirrigazione, ne hanno fatto un leader in diversi settori, e ora tutti vogliono un “pezzo” di queste capacità.
Nel frattempo, l’Iran, una Repubblica Islamica con ottanta milioni di abitanti di cui il 33% in condizioni di assoluta povertà, ha costruito una giustificazione per gli ingenti investimenti indirizzati ai militari, alle guardie rivoluzionarie, e al Clero sciita, affermando che ci sia qualcuno che “minaccia” la rivoluzione, e che quel “qualcuno” sia proprio Israele. Su questa favola si regge una larga fetta della politica estera dell’Iran, che attualmente, godendo del favore della Siria, ha campo libero per far pervenire armi di precisione e missili in Libano – armi che Hezbollah utilizza, tranquillamente e senza ripercussioni da parte della comunità internazionale, contro Israele -. Non meravigliamoci, dunque, se giornalmente sentiamo parlare di Raid in Siria contro depositi di armi e convogli iraniani diretti in Libano. La distanza che separa Iran e Israele è proprio ciò che ha evitato l’acuirsi delle possibilità di un’escalation militare, e se questa distanza viene accorciata dal trasferimento delle forze armate iraniane al confine con il Golan, è chiaro che ci stiamo affacciando ad una situazione che non può non sfociare in un conflitto armato.
Tecnicamente, dunque, Israele sta ad oggi affrontando una sola minaccia, ovvero la presenza iraniana in Siria. La sta affrontando nelle principali sedi della diplomazia internazionale, attraverso colloqui e scambi con i più importanti attori della regione, tra cui certamente anche Russia e Stati Uniti, e attraverso la pubblicazione di diversi rapporti di intelligence che dimostrano l’inadempienza dell’Iran all’accordo sul Nucleare e ad altrettante risoluzioni Onu, come la 2231 del 2015 che invitava l’Iran a non testare missili balistici. Teheran è, inoltre, anche il principale veicolo al mondo di propaganda anti israeliana e anti ebraica, e con i suoi finanziamenti – non impiegati affatto nel miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini – sta rafforzando gruppi terroristici come Hamas o l’ala armata di Hezbollah sia da un punto di vista logistico che militare. Insomma, se negli ultimi anni abbiamo visto un acuirsi delle tensioni a Gaza, attraverso tattiche quali il piroterrorismo (o terrorismo incendiario), lo dobbiamo sempre alle azioni di Teheran.
In sostanza, se c’è una questione che tutte le comunità ebraiche in Europa e nel mondo dovrebbero portare a conoscenza dei propri legislatori e rappresentanti nell’Esecutivo, riguarda proprio la questione iraniana, che oltre a essere diventato il principale veicolo di instabilità nella regione, si appella quotidianamente alla distruzione di Israele auspicando la morte di milioni di cittadini non solo israeliani, ma anche russi, americani ed europei. Tutto questo viene fatto quotidianamente con il beneplacito delle istituzioni europee e dei governi nazionali, che tra una partnership e l’altra con Teheran sembrano aver dimenticato che tra le loro costituzioni sono annoverati tra i valori fondanti delle stesse la libertà, la dignità dell’uomo e la pace.
“The winds of change can already be witnessed across the Middle East. Longstanding enemies are becoming partners. Old foes are finding new ground for cooperation. And the descendants of Isaac and Ishmael are coming together in common cause as never before.”
Mike Pence, Vice Presidente degli Stati Uniti, 22 Gennaio 2018
Rebecca Mieli é analista di politica internazionale e sicurezza globale. collabora con diversi think thank in Italia, Israele e Stati Uniti occupandosi di deterrenza nucleare, rischio CBRN, terrorismo e geopolitica del Medio Oriente, con un focus sul conflitto proxy tra Israele e Iran.

L’Unione Giovani Ebrei d’Italia (UGEI) è un’organizzazione ebraica italiana. Essa rappresenta tutti gli ebrei italiani di età compresa tra i 18 e i 35 anni. L’organo ufficiale di stampa UGEI è HaTikwa: un giornale aperto al confronto di idee.