Parrucche e veli per sottomettere
“E lei doveva rasarsi i capelli, come ogni pia donna ebrea era tenuta a fare”. Così racconta Israel Singer nel romanzo “I fratelli Ashkenazi”, scritto nel 1936 e ambientato nella Polonia degli anni antecedenti la Seconda guerra mondiale. Una donna ebrea osservante dovrebbe dunque tagliarsi i capelli e indossare una parrucca? Ebbene sì, non accadeva solo all’epoca del romanzo: si tratta di qualcosa di totalmente attuale in alcune frange di ebraismo che si reputano particolarmente ortodosse.
Sorge perciò spontanea una domanda: quali differenze ci sono tra una donna ebrea che è costretta a rinunciare ai propri capelli naturali e una donna musulmana che deve indossare il velo? L’impianto logico è assolutamente identico: una donna in pubblico non può mostrarsi del tutto, deve nascondere qualcosa di sé per poter essere davvero riconoscibile unicamente nella dimensione domestica privata, in compagnia del solo marito. Vuoi che l’elemento nasconditore si chiami parrucca, vuoi che si chiami hijab, chador o burka, cambia la forma ma non la sostanza. A chi, inoltre, obiettasse che in molti casi sono proprio le donne a scegliere di coprirsi il capo, si deve rispondere che non si tratta di scelta realmente libera, ma condizionata e spesso dettata da un agglomerato di vincoli che si sviluppano dal contesto di vita, la tradizione di riferimento, le aspettative delle persone care circostanti, la pressione sociale, la ricerca di riconoscimento, il timore dell’esclusione, la mera abitudine.
Questo porta a una riflessione di più ampio respiro su un tema delicato, il ruolo della donna e i suoi diritti nella società. Quanti stati, incluso il nostro, negli ultimi secoli e decenni, hanno fatto in modo di introdurre gradualmente nell’ordinamento pari diritti tra uomini e donne? Sicuramente tutti quelli del mondo occidentale. È da poco passato il 2 giugno, la festa della Repubblica italiana, quando, nel 1946, per la prima volta le donne del nostro paese si sono potute recare alle urne, e da allora hanno acquisito sempre maggiori diritti, come quello di poter ricoprire la carica di magistrato; successivamente uno dei più importanti è sicuramente stato il riconoscimento dello stupro come reato contro la persona e non più contro la morale, e l’abolizione di fatto di quella abominevole tradizione, radicata per lo più nel meridione, del matrimonio riparatore tra la donna vittima di violenza e il suo stupratore. Ad ogni modo, la donna nella nostra società è un soggetto libero, libero di intraprendere la carriera che preferisce, di scegliere con chi sposarsi, di divorziare, di votare.
In un quadro che sul piano prettamente giuridico sembra ormai quello più consono, la situazione descritta da Israel Singer ci fa tornare a cento o duecento anni fa. La donna è sottomessa, costretta a vivere in un’ovatta forzata. Dapprima è sotto i dettami dell’autorità paterna, cui spetta il compito di individuare il partner considerato più adatto, e che comunque appartiene quasi sempre al medesimo contesto. Successivamente, il matrimonio sancisce il mero passaggio della sottomissione dall’autorità paterna a quella maritale. Diventa schiava del marito, obbligata a stare in casa e curarsi della prole, e in alcuni casi anche a lavorare per portare il pane a casa e mantenere così la famiglia.
Nel mondo islamico radicale non sono infrequenti situazioni in cui stupri e violenze nei confronti della donna sono all’ordine del giorno. Forse nello spicchio di mondo ebraico osservante che impone alle donne la copertura del capo ciò non accade, ma rimane una domanda: una donna che deve tagliare i propri capelli e indossare una parrucca, perdendo quindi la propria identità e riconoscibilità in pubblico, può davvero definirsi una donna, una persona? Io ritengo di no. Dovremmo sempre ricordarci che è la donna che trasmette l’ebraicità ai figli, non l’uomo. Per mille motivi, ma anche per questo merita di vivere ed essere trattata come tale, non come schiava.
Hatikwà è un giornale “aperto al libero confronto delle idee”. L’unica condizione stabile che vincola chi vi scrive è il rispetto per le idee altrui e la capacità di argomentare le proprie. Anche per questo abbiamo pubblicato una risposta a questo articolo di Barbara Zarfati, e ogni altra opinione su questo e altri argomenti che voglia trovare spazio su queste pagine sarà ben accetta e valorizzata come merita.
[Giorgio Berruto, direttore Ht]
L’Unione Giovani Ebrei d’Italia (UGEI) è un’organizzazione ebraica italiana. Essa rappresenta tutti gli ebrei italiani di età compresa tra i 18 e i 35 anni. L’organo ufficiale di stampa UGEI è HaTikwa: un giornale aperto al confronto di idee.