Nel 1938, i soldati ebrei traditi dalla patria. Intervista a Giovanni Cecini
Quando, il 18 settembre 1938, Mussolini annunciò a Trieste l’emanazione delle Leggi Razziali, per gli ebrei non fu solo l’inizio della persecuzione; fu anche e soprattutto un atto di tradimento nei loro confronti da parte dello Stato italiano, al quale la maggior parte di loro era sempre stata fedele, dato che il Risorgimento li aveva fatti uscire dai ghetti e garantito loro libertà e diritti civili. Anche per questo, uno degli effetti delle leggi del ’38 fu l’espulsione dalle file dell’esercito italiano dei molti ebrei che vi servivano in quel momento, tra i quali erano presenti anche ufficiali e veterani che avevano combattuto nella Prima Guerra Mondiale.
Quest’anno cadono gli 85 anni da quei fatti. Chi ha studiato per anni questo capitolo storico, e ha accettato di parlarne con HaTikwa, è lo storico Giovanni Cecini: collaboratore dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore della Difesa, ha scritto numerosi volumi e articoli scientifici sulla storia delle Forze Armate italiane. Ha contribuito alla realizzazione di documentari andati in onda su Rai Storia, Rai 2 e Rai 3, ed è docente dei Master di I livello Storia Militare Contemporanea e Politica militare comparata dal 1945 ad oggi dell’Università Niccolò Cusano di Roma.
Nel 1938, alla promulgazione delle Leggi Razziali, quanti erano gli ebrei nell’esercito italiano?
Non esistono delle cifre complessive e sintetiche su tutti i militari, che alla fine del 1938 prestavano servizio nelle Forze Armate del Regno d’Italia. A ciò si aggiunge il fatto che l’esogena “classificazione razziale” fu di esclusiva competenza del legislatore e quindi dell’amministrazione pubblica, che fu incaricata anche a distanza di molti mesi di valutare e attuare i provvedimenti di espulsione. Nonostante ciò, si possono comunque citare alcuni numeri, di particolare significato: il Regio Esercito congedò all’epoca 3.058 ufficiali ebrei, tra cui un centinaio in servizio permanente effettivo. Tra le altre Forze Armate, gli ufficiali in servizio permanente congedati furono 29 per la Regia Marina, 38 per la Regia Aeronautica e 279 per la Milizia.
Prima del ’38, gli ebrei erano assai integrati in Italia. Quali erano gli ideali che li spingevano ad arruolarsi?
Il processo di emancipazione e d’integrazione fu un risvolto naturale del Risorgimento italiano, che venne interpretato dagli ebrei residenti negli Stati preunitari come una forma di liberazione sociale e civile dai lunghi secoli di soffocamento politico. Pertanto, il patriottismo divenne un volano di partecipazione e di affrancamento, che nei decenni successivi maturò in forme sempre più forti e identitarie proprio all’interno delle Forze Armate. In questo processo, giocò molto la maggiore condizione borghese degli italiani di fede ebraica; mediamente essi avevano una maggiore istruzione rispetto ai cristiani, la cui maggioranza era ancora analfabeta. La consapevolezza sociale portò quindi gli ebrei a trovare uno stimolo pure di carriera, così da poter emergere con estremo successo anche nelle amministrazioni militari.
Quale fu il loro apporto durante la Prima Guerra Mondiale e le imprese coloniali in Africa?
All’epoca le guerre erano il principale obiettivo di ogni esercito, e quindi era ovvio che anche i militari ebrei potessero auspicare un proprio coinvolgimento in qualsiasi contesto bellico. Le esperienze africane confermarono quello che allora era l’orgoglio nazionalista, tanto che durante la Guerra d’Etiopia del 1935-36 venne persino ricreato un Rabbinato Militare per l’assistenza dei soldati di fede israelita mobilitati e destinati in Africa orientale.
L’esperienza era stata avviata già durante la Prima Guerra Mondiale, che era divenuta così la più alta partecipazione identitaria del militarismo degli ebrei italiani. Durante l’intero conflitto 1915-18, questi ultimi furono circa 5.500, dei quali circa la metà nel rango degli ufficiali con alte percentuali nelle armi considerate dotte (come l’artiglieria e il genio) e in quelle sanitarie, confermando il grande apprezzamento anche in termini qualitativi del proprio servizio alla Patria.
Ci può raccontare alcune storie, che lei ritiene particolarmente importanti, di ufficiali ebrei perseguitati dopo il ’38?
Nelle mie attività di ricerca ho individuato tante storie drammatiche, che riguardano autentici servitori dello Stato, che da un giorno all’altro vennero messi alla porta senza nessun riguardo. Tra di essi emerse prevalentemente lo sgomento e l’incredulità, meno frequentemente l’indotta rabbia per essere stati traditi.
Tra le figure più significative si possono citare i casi dei colonnelli Giorgio Morpurgo e Giorgio Liuzzi. Il primo, al momento del congedo, era operativo in Spagna al fianco delle formazioni franchiste; egli non volle rassegnarsi all’obbligo di dover rimpatriare perché considerato improvvisamente non più degno di indossare la divisa italiana. Pertanto, chiese di poter partecipare a un’ultima operazione in prima linea, durante la quale volontariamente si lanciò sulle linee nemiche. Non potendo esprimere pubblicamente il proprio sconforto, decise così di chiudere la propria esistenza con una morte eroica piuttosto che accettare l’infamia del congedo.
L’altra vicenda riguarda invece Liuzzi, figlio di un valoroso generale della Prima Guerra Mondiale e anch’egli talentuoso ufficiale. Dopo il suo congedo, venne contattato dal Governo dell’Ecuador, che gli propose un importante incarico militare in Sud America. Egli rifiutò, precisando che per coscienza personale avrebbe potuto servire solo l’Italia. Visto che ciò non era più possibile, avrebbe preferito continuare a fare il contadino in Emilia.
Dei soldati ebrei espulsi dall’esercito, quanti finirono deportati e uccisi? E quanti, invece, si nascosero o presero parte alla Resistenza?
Anche in questo caso i numeri non possono essere molto precisi, visto che le casistiche furono assai diverse, anche in relazione agli svariati scenari della guerra e della Shoah. Possiamo comunque fare anche in questo caso alcuni esempi. Il più significativo tra le vittime delle deportazioni fu senza dubbio l’ammiraglio Augusto Capon, già eroe della Prima Guerra Mondiale e tra l’altro suocero di Enrico Fermi. Nonostante fosse paralitico, venne anch’egli inviato in Germania senza nessun tipo di riguardo alla propria condizione fisica o ai propri precedenti meriti militari. Appena giunto ad Auschwitz, venne quindi direttamente avviato a una camera a gas.
Per quanto riguarda la Resistenza, si può citare invece il caso particolare di Aldo Finzi, che era stato ufficiale pilota con Gabriele D’Annunzio e poi politico di regime. Seppur battezzato, si era riavvicinato alla comunità ebraica dopo il 1938, condividendo molti dei supplizi inflitti ai propri ex-correligionari. Durante il periodo dell’occupazione nazista, fu quindi attivo nella zona intorno a Roma come informatore e collaboratore della Resistenza locale. Fu per questo arrestato e fucilato alle Fosse Ardeatine.
Dopo la Liberazione, quanti ex-militari ebrei tornarono in servizio? Hanno mai ricevuto delle compensazioni dallo Stato?
Le vicende degli ex-militari dopo la caduta del fascismo non furono meno umilianti di quelle precedenti. Il Governo Badoglio e le successive istituzioni politiche nazionali non rivolsero mai una particolare attenzione verso i torti subiti dai congedati del 1938. Alcuni vennero traditi per una seconda volta. Si avviò così un solo graduale reinserimento negli incarichi precedenti, assolutamente parziale per la morte o l’invecchiamento di molti degli aventi diritto alle possibili riassunzioni.
Nonostante ciò, vi furono anche in questo caso alcune esemplari eccezioni. Proprio il caso del già citato Liuzzi rappresenta la testimonianza di un seppur minoritario ma sentito desiderio di riscatto. Reintegrato nel 1944, egli ottenne la ricostruzione della propria carriera ingiustamente interrotta, tanto che un decennio dopo venne addirittura nominato capo di Stato Maggiore dell’Esercito. Simile sorte toccò anche agli ex colonnelli Paolo Supino e Ivo Levi: proseguendo la propria carriera, agli inizi degli anni Cinquanta il primo divenne comandante della Scuola di Guerra, e il secondo vicecomandante dell’Arma dei Carabinieri.
In uno dei suoi ultimi libri, lei parla del clima di relativa tolleranza nei confronti degli ebrei da parte dei militari italiani che occupavano il sud della Francia. Quanto c’è di vero nell’espressione “italiani brava gente”, e quanto invece non lo è?
Sin dall’immediato dopoguerra, questa espressione ha suscitato grande fortuna, perché tende ancora oggi ad assolvere i crimini perpetrati da molti italiani in Patria e all’estero. Una più recente storiografia si è impegnata finalmente a scardinare un radicato giustificazionismo, fondato sul concetto esclusivo che il tedesco fosse l’alleato cattivo.
Pertanto, è necessario oggi come ieri distinguere le responsabilità e i meriti individuali, senza poter utilizzare delle categorie onnicomprensive, utili solo a perseverare in luoghi comuni. Ciò non vuol dire sminuire le circostanze nelle quali taluni militari o civili contribuirono al sollievo, o addirittura al salvataggio, di perseguitati per motivi etnici o politici. Allo stesso tempo, non è possibile offrire il pretesto per generalizzare ed assolvere senza distinzioni le gravi colpe dei responsabili o le omissioni dei sempre troppi indifferenti, che in Italia furono assai presenti negli anni del regime e in particolar modo in quelli della guerra.
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