Minaccia all’ordine globale, come cambia la Geopolitica – Intervista a Maurizio Molinari
Il celebre Segretario di Stato americano Henry Kissinger diceva che la storia “insegna per analogie, non per massime”, ribadendo quindi un’idea fondante del realismo politico: che la storia si ripete. Non solo perché l’uomo non impara dai propri errori, ma perché la sovranità di ogni Stato spinge i Paesi alla ricerca dell’egemonia. Una ricerca fatta di conflitti. A nemmeno ottant’anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, l’intera cartina geografica è nuovamente in fiamme. Dove le democrazie indietreggiano, le autocrazie avanzano. La minaccia all’ordine globale ha provocato la polarizzazione degli Stati nelle rispettive alleanze e la creazione di un assetto di scontro che si combatte per terra e per mare. Nel suo ultimo libro “Mediterraneo conteso – Perché l’Occidente e i suoi rivali ne hanno bisogno”, edito da Rizzoli, il direttore di Repubblica Maurizio Molinari scatta una fotografia della tempesta che sconvolge il mondo. HaTikwa lo ha intervistato per comprendere l’attuale situazione geopolitica.
Direttore, nel suo libro esordisce scrivendo che “tre potenze globali, una dozzina di medie potenze in competizione e cinque conflitti in corso fanno del Mediterraneo il cuore strategico del Pianeta”. Perché il Mediterraneo è così importante?
In questa stagione storica, le maggiori potenze del globo insistono sul Mediterraneo perché ne hanno bisogno. Per Stati Uniti e Occidente rappresenta da sempre la frontiera con il Sud del mondo, la Cina ha interesse a costruirvi la Nuova Via della Seta, mentre la Russia ha aggredito l’Ucraina perché necessita dei mari del Sud per tornare a essere una potenza globale. C’è un duello militare, economico e strategico in cui l’Italia, per ragioni geografiche, è al centro dello scacchiere. Il Mediterraneo è costellato di conflitti in superficie, che vanno dall’Ucraina al Sahel passando per Siria, Libia e Gaza, ma c’è tutto un interesse sottomarino: i fondali sono attraversati dalla maggioranza dei cavi a fibra ottica che trasportano i dati con cui viviamo ogni giorno. Questo conferma la sua centralità nel mondo.
Spostiamoci nell’area più calda del Mediterraneo, in Israele. Cosa significa la strage del 7 ottobre per il contesto geopolitico?
È stato un pogrom violento e una giornata terribile per Israele, ma lo scenario strategico che c’è dietro è molto più ampio e vede la contrapposizione fra due coalizioni che si contendono il Medio Oriente. La prima ruota attorno agli Accordi di Abramo e coinvolge tutti quei Paesi che hanno accordi di pace con Israele, quindi Egitto, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Autorità Nazionale Palestinese, Sudan e altri ancora. Un campo largo a cui potrebbe aggiungersi anche l’Arabia Saudita, con l’appoggio di Stati Uniti e Unione Europea. Se così fosse, si definirebbe una piattaforma geografica di passaggio fra India ed Europa occidentale e quindi un’alternativa alla Via della Seta tracciata dalla Cina. Una convergenza fra gli interessi dell’Occidente e del Medio Oriente, che rappresenta anche un avveniristico progetto commerciale capace di unire l’India, nazione del sud globale che cresce di più, a Israele e ai mercati occidentali che sono quelli più ricchi del mondo.
Chi guida l’altra coalizione?
Teheran, che progetta la creazione di una Mezzaluna sciita, cioè una coalizione di Stati arabi alleati che permetta di definire una continuità territoriale fra Iran, Iraq, Siria e Libano: mai prima d’ora, nella storia dell’Islam, gli sciiti hanno controllato così tanti territori e sono riusciti a creare omogeneità fra Golfo persico e Mediterraneo. Lo strumento con cui l’Iran persegue questo piano, che di fatto le assegnerebbe l’egemonia e la supremazia regionale, è la battaglia per la distruzione di Israele.
In che modo la pianifica?
Circondando lo Stato ebraico con gruppi terroristici armati: Hamas a Gaza, Jihad nei territori palestinesi, Hezbollah in Libano, poi le milizie in Siria e gli Houti in Yemen. Non c’è solo il progetto ideologico di distruggere Israele, ma l’intenzione di creare attorno all’Iran una serie di forze strategiche capaci di ridisegnare il Medio Oriente secondo i suoi interessi.
L’attacco di Hamas arriva durante i negoziati di pace fra Israele e Arabia Saudita. È stato sbagliato rendere note le trattative?
La spaccatura interna di Israele, per via della riforma, ha fatto percepire ai suoi nemici la vulnerabilità dello Stato. La sottovalutazione di Hamas è stato l’errore più grande dell’intelligence, condizionata dalla convinzione che i soldi del Qatar riuscissero a rendere inoffensiva Hamas. La questione diplomatica è diversa. La storia insegna che il successo dei negoziati in Medio Oriente è sempre stato dipeso dalla loro segretezza: dal volo del Presidente egiziano Sadat a Gerusalemme, che aprì la strada a Camp David nel 1978, passando per il processo che portò agli Accordi di Oslo del 1993, fino a quei negoziati che hanno spinto verso la ratifica degli Accordi di Abramo. Stavolta la dinamica è stata diversa. Tanto nell’amministrazione Biden quanto nel governo Netanyahu si parlava in continuazione dei rapporti con i sauditi. È stato un errore, perché ha convinto il campo guidato dall’Iran che fosse necessario accelerare l’attacco a Israele.
La Russia è partner dell’Iran e ha sostenuto l’attacco di Hamas. Allo stesso tempo, però, è legata a Israele da profonde relazioni storiche e politiche. Perché questo bipolarismo?
Quella di Putin è una strategia globale e aggressiva che mira sul conflitto di lungo termine. La sua Russia è stata un avversario feroce e spietato dei gruppi jihadisti dopo l’11 settembre ma, quando ha percepito che l’attacco del 7 ottobre avrebbe potuto distrarre le risorse degli Stati Uniti dall’Ucraina, non ha esitato un giorno a schierarsi con Hamas. Non perché sia al favore dei jihadisti, ma perché sa che l’impegno degli americani in Medio Oriente possa far ottenere alla Russia un vantaggio.
La strategia del Divide et Impera…
L’interesse di Putin è quello di porre fine al dominio globale dell’Occidente, per superare l’umiliazione della Guerra fredda e restituire al Paese un ruolo imperiale. Al contempo, sa che l’Occidente ha maggiori risorse e quindi tenta di indebolirlo attraverso la cosiddetta Guerra ibrida: una teoria, dichiarata dal suo Capo di Stato Maggiore Valerij Gerasimov nel 2013, che mira a creare una serie di tensioni popolari dentro e attorno all’Occidente per indebolirlo. Siria, Georgia, Crimea, Ucraina, Hamas a Gaza e la Brigata Wagner in Sahel, tutti fuochi che Putin accende per costringere l’Occidente a dividere le forze. A questo si aggiunge il sostegno verso i movimenti sovranisti europei, per creare ulteriori pressioni interne.
Come accaduto alla Società delle Nazioni, anche l’ONU sembra essere attraversato da una profonda crisi. In questo contesto, che ruolo sta giocando?
C’è un problema di legittimità delle Nazioni Unite. L’uso del Diritto di veto da parte di Cina e Russia spesso rende inefficace il Consiglio di Sicurezza, e il fatto che questo non abbia pronunciato una condanna verso il pogrom del 7 ottobre è difficile da accettare. È comprensibile la preoccupazione per la protezione dei civili di Gaza, giusta e legittima, ma anche quelli israeliani devono essere difesi. Quando avviene uno scempio orribile come la più grande strage di ebrei dalla fine della Shoah e l’ONU non riesce a emettere una condanna, significa che c’è un drammatico campanello di allarme. C’è poi una maggioranza dell’Assemblea Generale che spinge ad assumere posizioni molto discutibili. Sorprende e preoccupa l’atteggiamento del Segretario Generale ONU Antonio Guterres, perché quando si insediò questo tema era molto alto nella sua agenda. Sapeva che la presenza di un blocco di paesi non democratici in seno all’Assemblea Generale avrebbe reso inaffidabile le Nazioni Unite. Purtroppo, però, quanto sta accadendo dimostra che quel problema esiste ancora.
Lasciamoci con una riflessione. La più antica guerra della storia, finora registrata, è quella combattuta nella Mesopotamia del 2450 a.C. fra i regni di Umma e Lagash per la rivendicazione delle fonti di acqua. Lei indica il Mar Mediterraneo come l’attuale protagonista del globo. Alla fine, nella guerra non c’è nulla di nuovo. Si combatte ancora per l’acqua?
Negli studi che ho fatto per scrivere il mio ultimo libro, mi ha molto colpito un testo del politologo americano Robert D. Kaplan che si intitola “Adriatico”. L’autore approfondisce l’approccio della Repubblica di Venezia nei confronti del Mar Adriatico, considerato una grande strada capace di condurre fino all’estremo oriente. È l’approccio più fedele a quanto sta avvenendo. L’importanza strategica dei mari sta nel fatto che le acque sono spazi capaci di unire scenari diversi, dalla creazione di nuovi commerci a guerre terribili. Ad esempio, per Israele la superfice marina è strategica per la sua sicurezza nazionale, che non esisterebbe senza il controllo del Mediterraneo adiacente e del Golfo di Eilat. Lo stesso vale per l’Egitto, che lega la propria prosperità al Mar Rosso, al Mar Mediterraneo e al Canale di Suez, senza i quali morirebbe economicamente. Per capire la rapidità con cui cambiano gli equilibri del mondo bisogna considerare il mare come una continuazione dei territori