L’OPINIONE | Israele nel mirino del terrorismo islamico: i tre fattori di una possibile escalation
A ridosso del primo venerdì del Ramadan, la situazione si fa sempre più calda in Israele. Da una settimana a questa parte lo Stato ebraico è stato bersaglio di attentati rivendicati dall’estremismo islamico, quale ISIS e terroristi palestinesi. L’ultimo è avvenuto ieri, nel cuore della bella Tel Aviv che non dorme mai, dove hanno perso la vita due persone.
Un attentato che mi ha scosso enormemente, perché arrivato circa due ore dopo aver inviato un messaggio ad un mio contatto in Israele: gli scrivevo che, proprio a causa dei precedenti, qualcuno avrebbe potuto attaccare. Rileggo quel messaggio, adesso, rabbrividendo. A posteriori, però, ragiono a mente fredda convincendomi del fatto che non sia stato un presentimento a guidare quelle mie parole, ma la semplice analisi dei fatti che mi ha portato a pensare: era prevedibile e potrebbe esserci una escalation militare come lo scorso maggio. Non era prevedibile solo a causa degli attacchi terroristici a Beer Sheva e Bnei Brak, ma per una serie di motivi che toccano religione, politica estera e persino il fronte ucraino.
Partiamo dal primo. Il Ramadan è una delle ricorrenze più sacre del mondo islamico e costituisce uno dei cinque pilastri fondamentali della religione. I fedeli si riversano nelle moschee per pregare e stare assieme, ma molti ignorano che, per gli estremisti, questa sia una delle più prolifiche occasioni per fomentare i correligionari in rivolta contro ebrei ed israeliani. Il copione è circa lo stesso di quello messo in scena lo scorso anno nella moschea di Al-Aqsa, che era diventata un deposito di pietre da tirare verso i soldati così da provocare una risposta da usare come pretesto per lanciare razzi dalla Striscia. Uno scenario che oggi rischia di ripetersi e che potrebbe aggravarsi con le probabili risposte autonome dell’ala meno transigente israeliana. La miccia sembra nuovamente poter scoppiare.
Punto due. Dalla ratifica degli Accordi di Abramo, il prestigio politico internazionale di Israele è cresciuto in maniera esponenziale, permettendo l’allaccio di storici rapporti diplomatici con paesi arabi come Emirati Arabi Uniti e Marocco. Uno sviluppo cresciuto di pari passo con l’intolleranza antisemita degli estremisti islamici, totalmente in disaccordo riguardo una possibile collaborazione e alleanza tra il mondo arabo ed israeliano. Non a caso l’escalation terroristica nello Stato ebraico ha avuto luogo al ridosso dello storico Summit nel Negev che ha coinvolto proprio Marocco, Bahrein, UAE, Egitto, Israele e USA. Una frustrazione, quella dei terroristi palestinesi, peggiorata anche dai primi segnali diplomatici che arrivano dalla Turchia, con cui Israele sembra aver trovato la chiave per intraprendere il processo di normalizzazione dei rapporti bilaterali: Hamas vedrebbe, così, togliersi il suo storico sostenitore. A legittimare il fermento estremista, potrebbe anche concorrere sia la rischiata crisi del Governo Bennet, impegnato nel tenere salda l’alleanza di partito, sia la lotta per il potere nella Striscia, dove Abu Mazen ha condannato gli attacchi terroristici finora compiuti in Israele.
Punto tre. Il fronte ucraino sta ristabilendo progressivamente gli equilibri internazionali, tra cui anche il ruolo di Israele agli occhi del mondo. Da subito lo Stato ebraico è salito sul palco dei possibili mediatori tra Russia e Ucraina, in virtù delle condizioni che lo hanno permesso: non è solo culturalmente affine ai due paesi dell’Est, ma è anche il vicino di casa della Siria, attualmente sotto l’influenza di Putin. Israele necessita del lasciapassare russo per colpire gli obiettivi militari strategici dei Pasdaran e di Hezbollah sul territorio siriano, trovandosi nella difficile posizione di dover sostenere l’Ucraina ma solo con aiuti umanitari, per evitare di perdere questo vitale prestigio nel punto nevralgico della Siria.
La guerra scatenata da Putin in Ucraina compromette il Medio Oriente più di quanto non dia a vedere, soprattutto perché, in virtù delle considerazioni fatte finora, la buca di sabbia mossa dalla Russia sta tracciando il sentiero ad Hamas, che potrebbe cavalcare l’onda del fronte ucraino per colpire di nuovo. Il fatto che possano attaccare a nemmeno un anno di distanza dall’ultimo conflitto è allarmante. Finora Hamas ha iniziato tre guerre contro Israele, con una cadenza media di una volta ogni sei anni: Piombo fuso nel 2009, Margine protettivo nel 2014 e Guardiani delle mura nel 2021. L’ultima ha dato segnale di un riarmo significativo nel numero e nella qualità, testimoniato dal lancio dei nuovi razzi che ha raggiunto le quattromila unità in undici giorni.
Se la minaccia sembra nuovamente incombere, significa che la loro ripresa è stata più rapida degli scorsi anni. Questo accende un campanello d’allarme verso coloro che potrebbero aver favorito le condizioni: Libano e Siria. Oltre il loro aiuto, però, è bene notare come molti dei soldi necessari arrivino anche dalle pseudo ONG che mascherano la propria natura terroristica, spacciandola per umanitaria.
La situazione è delicata e non sono da sottovalutare possibili peggioramenti che già dalle prime ore del tramonto di oggi potrebbero manifestarsi. Potrebbero manifestarsi col lasciapassare di una parte del mondo occidentale in totale silenzio nei confronti del terrorismo palestinese, ma sempre pronta all’attacco di Israele nel momento della risposta. Una risposta che, qualora arrivasse, non farebbe altro che ribadire un concetto sacro della vita: ognuno ha il diritto di difendersi. Israele ha il diritto di difendersi.
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