Lo sport durante la Shoah
A Milano il 25 gennaio si è tenuto l’evento “Sport e Shoah”, organizzato dal Memoriale della Shoah in collaborazione con Sky Sport, per parlare del ruolo dello sport durante il fascismo e l’occupazione nazista.
Come disse Marcello Pezzetti nel documentario prodotto da Sky a cura Matteo Marani Lo sport Italiano contro gli ebrei, questo “è uno spazio in cui ci si può avvicinare nonostante le idee politiche differenti”. Difatti, i momenti in spogliatoio, durante una gara o durante una partita, nei momenti di vittoria o di sconfitta, ci si sente in famiglia.
Come è possibile che nel 1938 tutto sia cambiato? Con la proclamazione delle leggi razziali lo sport fu colpito duramente. Diventando judenfrei, senza ebrei.
“Se si è riusciti ad arianizzare lo sport, vuol dire che il nazismo era portante e ovvio” spiegò lo storico nel documentario. Tutto quello che veniva fatto o detto, era come se fosse normale.
Il 14 luglio 1938, era stato pubblicato il Manifesto della Razza, firmato da antropologi, medici e docenti universitari di cui un punto sosteneva che “la popolazione dell’Italia attuale è di origine ariana e la sua civiltà è ariana”, infatti nemmeno lo sport ne rimase fuori, anzi era diventato un requisito necessario. Il campione non era solamente un campione, ma un campione di Razza.
Il CONI, che aveva, allora come oggi, la responsabilità del movimento sportivo, non si sottrasse da questa ideologia, anzi ne fu principale promotore. Alla fine del 1938 chiese di inserire negli statuti “Condizione indispensabile per poter appartenere alla società è l’appartenenza alla razza ariana”. Negli anni successivi, o meglio, nel 1942 fu aggiunta una norma programmatica: “Tra i compiti del Coni c’è l’indirizzo verso il perfezionamento atletico, con particolare riguardo al miglioramento fisico e morale della razza”. Non a caso Achille Starace, braccio destro di Mussolini, era a capo del CONI.
Dallo Statuto alla realtà il passo è stato rapido: la prima Federazione a espellere gli ebrei fu la Vela; il 7 dicembre fu la volta di tennis e del ciclismo, l’11dicembre toccò al pugilato, quindi al canottaggio.
Il calcio aveva già proceduto il 30 novembre, riunendosi allo stadio del PNF, Partito Nazionale Fascista di Roma, dove l’Italia era diventata Campione del mondo.
Lo sport che dovrebbe sempre essere veicolo di integrazione, di Unione, divenne la base per creare razzismo. Furono molti gli sportivi che vennero esclusi: Raffaele Jaffe, Presidente di Casale Calcio; Arpad Weisz, arrivato in Italia come calciatore, e che diventò allenatore con ottimi risultati nell’Inter, nel 1930, e con la vittoria dello scudetto con il Bologna, nel 1937. Quella fu l’ultima volta che vide un campo. La stessa sorte la subirono molti, venendo privati del loro futuro o dei loro risultati: Leone Efrati, pugile affermato; Giorgio Ascarelli, Presidente del Napoli privato del nome sullo stadio subito dopo la sua morte avvenuta nel 1930; e Renato Sacerdoti, fondatore dell’AS Roma e padre dello stadio Testaccio.
Finita la guerra non c’è stata pausa per l’antisemitismo: famosa la foto di Anna Frank con la maglia della Roma, o i cori e gli striscioni presenti allo stadio a partire dagli anni Duemila. Come si fa quindi a far sì che non accada più? Come prevenire i casi di discriminazione e di antisemitismo nello sport o nel tifo?
Secondo Alessandro Giungi, Presidente delle Olimpiadi e Paralimpiadi, “ l’unico modo per sconfiggere e rispondere ai cori o altre minacce antisemite è la punizione o una sanzione economica”.