L’incapacità della Francia di rimediare ai suoi errori del passato

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di Filippo Tedeschi

 

La France est une République indivisible, laïque, démocratique et sociale”: così recita l’articolo 1 della costituzione francese del 1958. Ancor prima che democratica e sociale, quella francese è una repubblica laica. Lo è ancor oggi, basandosi su un’antica legge del 1904 e sulle sue successive modifiche, che prevede come impianto generale la totale separazione tra gli affari dello stato e quelli delle rappresentanze religiose. Nel corso della Quinta Repubblica, però, l’impianto laicista francese ha assunto connotazioni, anche ideologiche, ben differenti da quelle dello spirito con cui era nata tale impostazione legislativa. Se un secolo fa il problema che richiedeva l’intervento normativo era quasi meramente di natura fiscale e di contrasto all’autonomia della Chiesa Cattolica nella gestione dei beni immobili sorti nei secoli in territorio francese, oggi quello stesso impianto pone enormi problemi di natura sociale e, soprattutto, di sicurezza nazionale.

I drammatici fatti di cronaca transalpini dell’ultimo mese ci impongono una riflessione di più ampio respiro sul fenomeno, e che vada il più possibile a riunire i pezzi di una realtà complessa a cui sempre più spesso si cerca di rispondere con soluzioni “semplici” ma, per loro stessa natura, non esaustive, e spesso dannose. Fermo restando che ogni atto di violenza deve essere condannato, è necessario compiere lo sforzo di giungere a capire (senza certo accettare) le motivazioni per cui il terrorismo di origine islamista stia tornando a far paura in Europa.

La plurisecolare politica coloniale francese, iniziata intorno al ‘600 e che ha raggiunto il suo apice negli anni ‘30 del secolo scorso, ha reso la Francia decolonizzata del secondo dopoguerra un interessante crogiolo di differenti culture, etnie e religioni molto importante dal punto di vista delle scienze sociali, antropologiche ed etnografiche. È evidente che un fenomeno così temporalmente lungo e geograficamente vasto su tutti i continenti imponga delle forti generalizzazioni sulla condotta francese nei territori conquistati e ne confronti dei loro abitanti. Ci basti evidenziare, però, che le condizioni economiche della maggior parte dei paesi che hanno ottenuto l’indipendenza sono risultate così fragili da rendere questi ultimi ancora politicamente dipendenti dalla Francia; questa, per la popolazione di questi nuovi stati, è rimasta la prima scelta dove emigrare. È così che, ben prima delle migrazioni di massa verso l’Europa iniziate attorno agli anni ‘90, in Francia (e ancor prima in Inghilterra), si iniziò a dover fare i conti in loco con l’incontro socioculturale di più etnie e religioni differenti.

Nell’arco di settant’anni, la Francia non è stata in grado di mettere in atto politiche sociali realmente efficaci e, anzi, ha più volte spinto le parti sociali verso la ghettizzazione confondendo l’integrazione con l’assimilazione. La principale differenza tra integrazione e assimilazione risiede infatti nell’azione non della minoranza ma della maggioranza: se nei processi integrativi entrambe le parti si vengono incontro in maniera sinergica per costruire una piattaforma comune in cui tutti sono in grado di esprimere pienamente il proprio essere nella convivenza pacifica, nel caso dell’assimilazione (ed è ciò che sta succedendo in Francia) la maggioranza non è minimamente disposta a muoversi di un passo alla luce della presunta superiorità della propria condizione, imponendo alla minoranza l’assunzione dei suoi comportamenti ritenuti più evoluti. Ciò è stato fatto in nome di un laicismo che sempre più spesso, e bisogna avere il coraggio di riconoscerlo, ha sfiorato l’ateismo di stato.

Dal 2004, come è noto, in Francia è proibito agli alunni delle scuole pubbliche di primo e secondo grado, nonché ai dipendenti pubblici nello svolgimento delle loro funzioni, di indossare qualsiasi simbolo che possa ricondurre l’individuo ad una qualsiasi appartenenza religiosa. Nessuna kippah, nessun velo, nessun turbante, nessun crocefisso. C’è anche chi, in campo ebraico, ha esultato dopo aver visto che tale provvedimento ha significato un discreto aumento del numero degli iscritti alle scuole ebraiche. Ma questo ragionamento non tiene conto sul fatto che quello stesso provvedimento è una delle tante ragioni alla base della disgregazione sociale francese che ha portato anche all’aumento dell’antisemitismo che attanaglia gli ebrei di Francia, e che oggi li spinge a lasciare il paese. Se la comunità ebraica e quella cattolica, ad esempio, avevano storicamente sul territorio una rete di educazione privata, lo stesso non si è potuto dire per la comunità islamica, che ha subito più apertamente le restrizioni della normativa, aumentando le tensioni sociali.

La laicità, oggi fondamento alla base della convivenza per i popoli europei, risiede nella pari dignità di tutte le fedi agli occhi dello Stato, il quale le deve rispettare nelle loro particolarità senza privilegiarne qualcuna a discapito di altre. A questo imperativo categorico della società europea contemporanea si possono dare due tipi di indirizzo secondo l’adagio del “o a tutti o a nessuno”: in Francia si è scelta la strada apparentemente meno faticosa, quella del “nessuno”. Si è scelta la difesa ostinata di principi tanto idealizzati quanto sempre più staccati dalla realtà contemporanea, tanto da provocare l’enorme disastro sociale a cui stiamo assistendo in questi giorni. Si pensi ad esempio all’importante dibattito sulla libertà d’espressione in ogni sua forma.

Il mondo della comunicazione, della discussione sociale degli anni 2000, ha visto un importante passo avanti nella diffusione e condivisione del pensiero del singolo. Ben presto, però, ci si è resi conto di quanto questa libertà eliminasse quella funzione di filtro a cui prima era soggetta la diffusione delle opinioni, quando queste dovevano essere condensate nel limitato spazio della pagina stampata. Con il digitale è aumentata la responsabilità di tutti noi rispetto a ciò che diciamo e pensiamo. Quella che una volta era la chiacchiera da bar e che al bar restava, ora è diventata la chiacchiera da social, senza rendersi conto che il social espone le nostre opinioni alla piazza globale con responsabilità annesse e connesse e che persino nelle testate più autorevoli, ora che è stato abbattuto il limite delle pagine e delle colonne, si permette di pubblicare notizie e opinioni che una volta mai si sarebbe pensato avessero la rilevanza per essere diffuse.

Così, se da un lato si è pronti a diffondere e poi solo eventualmente a condannare chi ad esempio è pronto a negare l’esistenza di un virus e di una pandemia mettendo indubbiamente in pericolo la vita dell’intera comunità, non si è altrettanto in grado di condannare chi da anni continua a diffondere un virus sociale altrettanto esplosivo, pubblicando ad esempio immagini dissacratorie di una importante figura religiosa come Maometto, ledendo la sensibilità anche, ma non solo, di circa 6 milioni di fedeli nella sola Francia, e facendo crollare gli sforzi messi in campo da gran parte della società civile per giungere ugualmente all’integrazione. Ciò va evidentemente a danno non solo di quella stragrande maggioranza di musulmani che fa di tutto per integrarsi nella società francese, ma dell’intera nazione.

Molti recenti studi sull’islamismo jihadista rivelano quanto sia profondamente cambiato il modus operandi del terrorismo islamista degli ultimi vent’anni. Se fino a 10 anni fa la quasi totalità degli attentati era frutto di piani ben studiati, messi in atto da terroristi addestrati per mesi in seno alle organizzazioni terroristiche, oggi per queste ultime si rivela molto più economico e facile concentrarsi sulla diffusione in vasta scala del materiale di propaganda, consapevoli che, tra i milioni di utenti delle piattaforme sociali, ci sarà sempre qualcuno pronto ad abboccare rispondendo alla chiamata, spinto anche dal contesto sociale in cui si trova, ad improvvisarsi terrorista e martire fai-da-te.

È a questo punto che bisogna considerare l’altra strada del “o a tutti o a nessuno”: quella apparentemente più difficile e che richiede sicuramente uno sforzo più grande di tutte le parti in causa, ma che alla fine è in grado di dare i propri frutti. È la carta dell’integrazione vera, quella che vede nelle differenze un arricchimento collettivo e non un ostacolo da abbattere. È la via che consente all’individuo di esprimere in pieno sé stesso anche dal punto di vista religioso, sicuro di avere uno stato alle sue spalle pronto a sostenerlo nei momenti più difficili. Uno stato in cui si deve avere la Liberté di esprimere ad esempio anche nel vestiario la propria fede, l’Égalité di trattamento e di possibilità di sviluppo tra il centro e le banlieue, sempre più sgabuzzino sociale per le minoranze che vi risiedono (tra cui in alcuni casi anche quella ebraica). Solo in tal modo sarà possibile giungere ad una Fraternité sociale in Francia ed in Europa, in cui le istituzioni si fanno garanti e promotrici della convivenza interculturale ed interreligiosa.

Il vantaggio di altri Paesi europei come l’Italia è il ritardo di circa quarant’anni sul fenomeno migratorio. Ma come abbiamo imparato in questi mesi di pandemia, il problema dei virus è la crescita esponenziale, che non si ferma ai confini nazionali. Ciò significa che forse non abbiamo più molto tempo per implementare una strada differente da quella francese. È nell’interesse di tutti, non solo di noi ebrei, di guardare con estremo interesse agli sforzi della Confederazione Islamica Italiana verso le intese con lo stato, ed è altrettanto importante che la nostra UCEI, nei prossimi anni, si ponga come parte dialogante e di sostegno verso questa realtà per evitare il collasso sociale anche nel nostro paese.


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