Lettera del direttore di HaTikwa per il nuovo anno: “Vi auguro il silenzio”

silenzio

di David Zebuloni, Direttore di HaTikwa

 

Cari lettori,

Un nuovo anno ebraico è alle porte e il desiderio di scrivervi risulta più impellente che mai. Ricordo che quando lo scorso anno intervistai Elena Loewenthal per questa testata, le chiesi in chiusura quale messaggio volesse trasmettere ai nostri lettori. Lei indugiò un attimo e rispose che “i messaggi sono sempre un po’ vacui”, ovvero vuoti, privi di contenuto. Con fare leggermente infantile conclusi l’intervista imbronciato, convinto che la Loewenthal si stesse inventando una scusa per portare a termine l’incontro. All’epoca non capii lo spessore della sua risposta, non mi impegnai per trovare in essa un significato nascosto. Oggi invece riconosco nelle sue parole una bellezza rara. “I messaggi sono sempre un po’ vacui”, mi ripeto infatti con una certa frequenza. Quanta brutale e disarmante verità. I messaggi universali, specie quelli di inizio anno, sono sempre o quasi sempre sterili e fastidiosi, retorici e ridondanti.

Il 5780, secondo il calendario ebraico, verrà ricordato senza dubbio come uno degli anni più difficili della storia. Della nostra storia. Della storia di noi giovani, che siamo cresciuti ascoltando i racconti di guerra e di fame dei nostri nonni, senza aver mai percepito da vicino la minaccia di un nemico intento a distruggerci. Ed eccolo lì, il Covid-19, nemico invisibile e subdolo arrivato sulla terra per ricordarci che, per quanto l’uomo possa pianificare, Dio sarà sempre pronto a ridere. E credo che quest’anno Dio abbia riso più del solito, insegnandoci così che la fede, talvolta, rimane l’unico vero appiglio in un mare di incertezze.

Si è detto tanto, si è detto troppo, si è detto tutto. Nessuno ci ha risparmiati. Nessuno. Politici, giornalisti e comuni utenti in rete. Tutti ci hanno bombardato di messaggi vacui e inutili nell’intento di insegnarci ad affrontare la tempesta a testa alta, traendo da essa solo ed esclusivamente il meglio. Tutti ci hanno invitato a vedere il bicchiere mezzo pieno e ignorare quello mezzo vuoto, a riconoscere le vittime e condannare i colpevoli, a fare sport in casa e a cantare sui balconi. Solo una persona ha saputo fare diversamente, ridimensionando drasticamente la mia personale percezione di rumore e di significato. Mi spiego meglio. Quando all’inizio della pandemia è stato chiesto a Liliana Segre di esprimersi sulla tragedia in corso, lei come sempre ha saputo trovare le parole più giuste, più vere, più autentiche per descrivere ciò che stava vivendo. “Non ho niente di originale da dire”, ha affermato Liliana. “Né la mia immaginazione, né la mia fantasia, né il mio buonsenso, né altro. Sono abbastanza sbalordita da quello che succede. E la verità è che non c’è niente da dire.”

Accompagnato da queste parole, così semplici e straordinarie, vorrei augurarvi cari lettori un anno di silenzio. Ma un silenzio vero, privo di rumori e brusii. Privo di insegnamenti e ramanzine. Perché come canta Mina in un uno dei suoi innumerevoli capolavori: “io voglio insegnarti il silenzio, perché non ha senso un silenzio che è fatto tutto di parole”. Proprio così, non ha senso un silenzio fatto tutto di parole, di messaggi, di moniti. Se il 5780 verrà ricordato come l’anno della più grande crisi sanitaria della storia, vorrei che il 5781 venisse ricordato come l’anno più silenzioso della storia. Vorrei che ci venisse concesso il tempo di godere della famosa quiete dopo la tempesta, di leccarci le ferite in santa pace, di rimetterci lentamente in pista, di piangere in privato i cari scomparsi improvvisamente, anche e soprattutto quelli appartenenti alle nostre comunità. Vorrei che il nuovo anno possa fungere da nido di ceneri dalle quali risorgere, come le fenici, più splendenti di prima. Più forti delle nostre paure. Più uniti di quanto lo fossimo mai stati.


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