L’EDITORIALE – Colpevole fino a prova contraria: il tribunale mediatico sulla morte di Shireen Abu Akleh

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Dopo che un commando dell’ISIS e diverse milizie palestinesi hanno realizzato cinque attentati nell’arco di un mese contro Israele, provocandone la morte di diciannove civili, l’IDF ha deciso di passare alla controffensiva. Un’intensa operazione antiterrorismo è stata condotta dall’esercito israeliano nella città di Jenin, Samaria, per arrestare miliziani palestinesi affiliati al terrorismo jihadista. Una città da cui statisticamente provengono gran parte degli attentatori che hanno seminato il terrore nello Stato ebraico.

Tra spari, caos e proiettili, lo scontro ha provocato la morte della giornalista Shireen Abu Akleh, inviata di Al-Jazeera. Non è ancora chiaro chi abbia fatto partire il colpo fatale, ma dal momento in cui è stata diffusa la notizia, sia Al-Jazeera che Abu Mazen hanno accusato Israele in maniera infondata. Israele non ha, però, ripagato con la medesima accusa eguale e contraria, ma si è resa disponibile a condurre un’indagine congiunta – balistica e autopsia – per accertare le responsabilità. Rifiutata la proposta, e ignorata l’esortazione ad accettarla da parte di USA (poiché la giornalista è anche cittadina statunitense) ed Unione Europea, l’Autorità palestinese si è poi riservata il diritto di condurre i test in autonomia.
Il ministro degli Affari Civili Hussein al-Sheikh ha detto che l’Anp svolgerà la sua indagine «in maniera indipendente» e i risultati saranno resi noti «in piena trasparenza» – riporta ANSA – L’Anp, inoltre, secondo i media, non consegnerà il proiettile estratto dal corpo della reporter nella autopsia effettuata ieri all’Istituto di medicina legale ‘Al Najah’ di Nablus”.

Perché l’Autorità palestinese, che si dichiara innocente, è restia a condurre un’indagine imparziale, congiunta supervisionata da USA e UE? L’unica fonte su cui fonda l’accusa sta nella testimonianza dell’emittente televisiva presente sul posto; allora chiediamoci: è davvero possibile credere che una persona, nel mezzo di uno scontro, sia riuscita a veder partire ed arrivare un proiettile? Cosa conferisce loro la sicurezza della propria prospettiva?

Nel frattempo, il direttore dell’istituto di medicina legale palestinese, il dottor Rayyan Al Ali, ha dichiarato che “non è possibile determinare se la giornalista di Al Jazeera morta due giorni fa a Jenin, sia stata uccisa da una pallottola israeliana o da una palestinese”, perché il proiettile estratto dal corpo della vittima è un calibro 5,56 mm utilizzato da ambedue le parti.

Forse non si saprà mai chi abbia ucciso Shireen Abu Akleh, perché la sua tragica morte, quella di una giornalista che compiva il suo mestiere di inviata di guerra, è stata strumentalizzata di nuovo contro Israele. Non esistono prove incriminanti, per nessuna delle parti coinvolte, eppure il tribunale mediatico ha, senza alcuna riserva ed in maniera scientifica, condannato Israele. Mai, nemmeno vagamente, si è parlato di una possibile responsabilità palestinese. Tuttavia, un video pubblicato sul web ritraente lo scontro in questione ha lasciato intravedere due elementi fondamentali per lo snodo della questione.
Il primo: la tecnica operativa palestinese. Il miliziano raffigurato nel video spara senza mirare, ma soprattutto senza guardare. Copre il suo corpo dietro al muro, mentre fa sporgere solamente il fucile per sparare alla rinfusa, in maniera indistinta, cieca e senza un obiettivo preciso. Il secondo. I miliziani palestinesi gridano di aver colpito un soldato, ma l’esercito israeliano smentisce subito la notizia: nessuno è rimasto ferito. L’insieme di questi due elementi potrebbe far pensare che ad essere colpita dal fuoco indistinto palestinese non sia stato un soldato, ma la giornalista di Al-Jazeera, così come anche sostenuto dal premier Naftali Bennet.

Queste considerazioni bastano per denunciare non solo la malafede, ma l’intenzione del web di cercare in qualsiasi contesto il pretesto per accendere la miccia che tra le due parti minaccia di infiammarsi da prima delle festività pasquali. Anche se di mezzo c’è una vita umana, inconsapevole di essere bandiera di un ragguardevole processo di strumentalizzazione.
Non si spiegherebbe, altrimenti, come personaggi che tanto sostengono di battersi per i diritti civili siano i primi a sentenziare senza disporre di prove scientifiche. Rula Jebreal, Alessandro Di Battista e persino Amnesty International, che chiede il diritto ad un processo in tutte le lingue del mondo in tutti i paesi del mondo, sembra non concedere il beneficio del dubbio ad Israele, prendendo subito le parti dei palestinesi.

Perché la morte di una giornalista dev’essere oggetto di tifoseria? Perché si parla solamente di una possibile responsabilità israeliana e non palestinese? Come per tutte le situazioni, anche in questo caso si dovrà procedere con precisione ed imparzialità, in maniera congiunta. Per scoprire la verità e per evitare che la morte di una persona diventi strumento della propaganda.

Photocredit: Israel Hayom

 


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