Le frontiere dell’ortodossia – Intervista a Dina Brawer su ebraismo e inclusione femminile
Il problema dell’inclusione della donna nel mondo ebraico ortodosso, sorto già dalla metà del Novecento, è diventato sempre più attuale negli ultimi 10-15 anni. Nel 2002 è nata a Gerusalemme Shirà Chadashà, che ha fornito il modello – esportato poi in USA, Canada, Australia, Israele e adesso Europa – di “partnership minyan”. Si tratta di un gruppo di preghiera nato con lo scopo di favorire l’inclusione delle donne nella liturgia nel modo più ampio possibile, ma restando nei confini dell’Halakhà: uomini e donne sono separati da una mekhizà e il minyan è composto da 10 uomini (a differenza del minyan reform, che richiede la presenza di 10 ebrei indipendentemente dal genere), ma le donne sono invitate a condurre parti della preghiera (zemiroth e kabbalat Shabbat) e leggere la Torà in pubblico. La stessa struttura della sinagoga riprende l’idea di parità di genere perché la mekhizà viene collocata esattamente al centro del tempio, che figura così suddiviso in due parti uguali.
Le pratiche, però, spesso variano caso per caso: in certi casi viene concesso alle donne di condurre anche altre parti della tefillà (di regola non dvarim shebikdusha) e, anche se il minyan rimane di 10 uomini, come prassi si aspetta anche l’arrivo di 10 donne, per segnalare che la presenza femminile è ugualmente importante. In altri casi invece le pratiche sono più restrittive del modello base. L’inclusione nella liturgia trascina con sé la ancora più problematica questione di una leadership ebraica femminile: se le donne possono condurre parti della tefillà o salire a sefer, possono assumere anche un ruolo di guida della comunità, il ruolo di rabbino?
Nel 2009 è stata fondata a New York da rav Avi Weiss e Rabba Sara Hurwitz la Yeshivat Maharat, il primo istituto al mondo nato per dare una formazione alle donne intenzionate a servire la comunità ortodossa come “leader spirituali”. Yeshivat Maharat e in particolare la scelta di Sara Hurwitz, prima allieva di Avi Weiss, di usare il titolo di “rabba” o “rabbanit”, ha aperto una disputa molto accesa tra Avi Weiss e il Rabbinical Council of America e, di recente, con l’Orthodox Union, che ha pronunciato uno statement contro la possibilità da parte di donne di assumere ruoli rabbinici in modo regolare. In realtà, dal punto di vista strettamente halakhico, la possibilità per le donne di ricoprire un ruolo rabbinico (derivante dalla possibilità di studiare Halakhah e dare responsi halakhici), trova paradossalmente meno ostacoli dell’inclusione a livello liturgico, tanto che già nel 1998 a New York due donne hanno lavorato per la prima volta in due comunità ortodosse assumendo il titolo di “clergy”.
Di questo e in generale del rapporto tra ebraismo ortodosso e questione femminile abbiamo parlato con Dina Brawer, allieva presso la Yeshivat Maharat di New York e fondatrice di JOFA (Jewish Orthodox Feminist Alliance) UK. Nella sua visione il femminismo ortodosso non chiede (solo) uguali diritti, ma soprattutto uguale impegno: le donne per molto tempo sono state “esentate” da una piena partecipazione alla vita comunitaria e religiosa per potersi concentrare sugli impegni familiari, ma ha senso questa esenzione oggi che molte donne hanno un livello di istruzione elevato e sono in grado di bilanciare vita lavorativa e familiare?
Anche in Europa, e in particolare proprio a Londra, stanno nascendo diversi partnership minyanim costruiti sul modello di Shira Chadasha, in cui anche le donne assumono ruolo di officiante. Il rabbino capo del Regno Unito, rav Ephraim Mirvis, nel 2016 ha definito i partnership minyanim come “contrari all’Halakhà”, eppure il fenomeno non sembra arrestarsi. Ha seguito la nascita di questi minyanim? Cosa crede che succederà? Negli scorsi tre anni sono nati spontaneamente a Londra cinque partnership minyanim. Gli uomini e le donne coinvolti rappresentano il lato migliore dei membri della United Synagogue: giovani, con una solida educazione ebraica, entusiasti di creare opportunità per la partecipazione delle donne e per una liturgia più inclusiva all’interno dei confini dell’Halakhà. Hanno studiato i numerosi responsa halakhici sulle aliyot la’Torah da parte di donne e sono consapevoli che l’halakhà ortodossa non è uniforme ma viene modellata sulla visione del mondo del decisore halakhico. Seguono la p’sak halakhà di importanti studiosi di Torà in Israele e USA perché consapevoli che l’inclusione della donna è una questione urgente per un’ortodossia ebraica fiorente e dinamica.
Lei ha sempre lavorato a fianco di suo marito, il rabbino di una congregazione inglese, e ha avuto da sempre un ruolo attivo nella comunità, tenendo corsi e lezioni di Torà. L’anno prossimo dovrebbe conseguire il titolo di maharat alla Yeshivat Maharat di New York. In che modo la scelta diventare maharat ha influenzato la sua vita? Come pensa che cambierà il suo ruolo nella comunità? Le mie radici sono nella comunità chabad e da adolescente volevo diventare shluchà e servire la comunità ebraica. E’ quello che ho fatto assieme a mio marito nel ruolo contemporaneamente di shluchà e “rebbetzin”. Scegliere di studiare per la semikhà ortodossa alla Yeshivat Maharat mi ha permesso di immergermi nello studio della Torà 8 ore al giorno, ampliando e approfondendo le mie conoscenze. Ha già cambiato il mio ruolo nella comunità dandomi non solo gli strumenti per educare e avere un ruolo di guida ma anche la capacità di rispondere a quesiti halakhici, qualcosa per cui né una rebbetzin né un’educatrice sono specificamente formate.
Cosa distingue una maharat da una rebbetzin o da una “semplice educatrice”? Non credo che il ruolo di un educatore sia mai “semplice”. Le persone che hanno avuto l’impatto maggiore su di me sono stati uomini e donne che erano abili educatori, e la loro capacità di affrontare un compito così difficile non dovrebbe essere data per scontata. Rebbetzin è un titolo che viene attribuito a qualsiasi donna che si ritrovi sposata con un rabbino, e non dice quasi niente sulla sua istruzione religiosa, abilità educative o interesse a servire la comunità. Conosco molte donne mogli di rabbini che desiderano una professione fuori dalla comunità ebraica e altre che sono ottime educatrici e guide spirituali ma non sono sposate a rabbini. Se vogliamo parlare seriamente di una leadership religiosa femminile dobbiamo “divorziare” e quindi separare il ruolo di leader da quello di moglie di rabbino. Dobbiamo dare una definizione di guida spirituale che sia sganciato dall’essere moglie di un rabbino, anche se questa corrispondenza può essere vera per diverse candidate qualificate. Yeshivat Maharat offre alle donne la possibilità di avere una formazione in Halakhà, testi ebraici e leadership spirituale parallela a quella offerta dalle scuole rabbiniche ortodosse. Programmi simili esistono adesso a Gerusalemme, tra i quali il programma Susie Bradfield per Mahnigot alla Midreshet Lindenbaum. Il titolo di “rabbino” attribuisce automaticamente al suo titolare una voce autorevole nel mondo ebraico, e il titolo di maharat o rabbà può adesso dare alle voci femminili la stessa autorità.
L’essenza dell’ebraismo ortodosso è la tradizione, una tradizione che è riuscita a sopravvivere ai secoli restando coerente a se stessa. Perché cambiarla? Non si rischia di stravolgerla, o creare una spaccatura interna? L’ebraismo ortodosso ricerca stabilità in quelli che considera i valori tradizionali. Questo intento si esprime nella sua resistenza alle pressioni di adattarsi a una società in continuo cambiamento, ma il segreto della sopravvivenza dell’ebraismo è nel modo in cui è riuscito a gestire la tensione tra stabilità e cambiamento. Sono proprio la flessibilità e adattabilità dell’ebraismo, il ricercare nuove soluzioni nei periodi di cambiamento, e la capacità di incorporare rituali nuovi attribuendo a essi un aspetto tradizionale che lo hanno sostenuto così a lungo.
L’ebraismo oggi deve affrontare sfide fondamentali, in particolare l’assimilazione. Come vede il futuro? Come leader spirituale il mio sforzo è quello di offrire esperienze ebraiche che siano importanti, inclusive e portino alla crescita di ebrei di varie affiliazioni e livelli di osservanza.
Talia la cabalista
Biografia di Dina Brawer
Nata a Milano, ha frequentato le scuole superiori a Gerusalemme e l’università a Londra, dove ha prima conseguito una triennale in Hebrew and Jewish Studies presso la London School of Jewish Studies e in seguito una specializzazione in Education presso l’Institute of Education. Per molti anni ha lavorato a fianco di suo marito, rabbino in due comunità a Londra, come educatrice. E’ la prima ambasciatrice di JOFA UK e, per il suo impegno nella creazione di un movimento femminista all’interno dell’ebraismo ortodosso britannico, è stata recentemente inserita da The Jewish Chronicle nella lista dei 100 personaggi più influenti nella comunità ebraica inglese.
L’Unione Giovani Ebrei d’Italia (UGEI) è un’organizzazione ebraica italiana. Essa rappresenta tutti gli ebrei italiani di età compresa tra i 18 e i 35 anni. L’organo ufficiale di stampa UGEI è HaTikwa: un giornale aperto al confronto di idee.