25 novembre: la Voce per le Donne sommersa dal silenzio sul 7 Ottobre
Come il massacro del 7 ottobre è stato dimenticato e giustificato dalle femministe occidentali
di Micol Di Gioacchino, Ghila Lascar e Daphne Zelnick
Il 25 novembre è la Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza contro le Donne, un momento di estrema importanza per la sensibilizzazione su questo tema, che è da sempre una piaga intrinsecamente presente in ogni realtà e società. L’oggetto di questa giornata è proprio dar voce – creando un coro unito – a tutte quelle donne che hanno subito violenza di ogni genere. Ed è proprio da questa necessità di creare un’unica voce che parte quindi un’analisi doverosa di un silenzio rumoroso e continuo.
All’alba del 7 ottobre, centinaia di donne in Israele – perché ricordiamo che non tutte erano israeliane – sono state vittime di un attacco feroce e disumano da parte del gruppo terroristico di Hamas, che ha documentato le atrocità con video e foto condivise dal gruppo stesso. Sono state assassinate, rapite, mutilate e persino violentate in fin di vita.
Ma nonostante questo, i crimini di Hamas nei confronti di queste donne non sono stati condannati. Grandi organizzazioni, come l’ONU e Amnesty, e associazioni femministe in tutto il mondo si sono voltate dall’altra parte.
Tra questi, il movimento Me Too, che dopo le numerose critiche per le dichiarazioni sulla guerra ha condannato nell’ultimo statement, a metà novembre, l’uso della violenza sessuale come strumento di guerra in Israele.
É importante ricordare come la maggior parte di questi movimenti internazionali abbiano sfondato dei soffitti di cristallo in diversi contesti, ribadendo l’importanza del famoso “We believe you” (noi ti crediamo), che ha gettato le fondamenta per un nuovo approccio nei processi per violenze sessuali, portando a una maggiore considerazione circa la veridicità delle dichiarazioni di donne e ragazze vittime di violenza. Questo è stato lo slogan di Samantha Pearson, ormai ex direttrice del Centro Violenze Sessuali dell’Università dell’Alberta, licenziata per aver firmato un appello, scritto da due politiche canadesi, che dubitava della veridicità degli stupri delle donne israeliane avvenuti il 7 ottobre.
In questi momenti drammatici, i terroristi stessi, attraverso le loro bodycam, hanno documentato una serie di barbarie indicibili, tanto atroci da suscitare un profondo dolore anche solo all’idea di descriverle dopo averle ascoltate dalle testimonianze delle sopravvissute.
E in Italia? Tante associazioni non si sono limitate al silenzio, ma si sono espresse demonizzando lo Stato di Israele. Come ad esempio l’organizzazione transfemminista NonUnaDiMeno, che rappresenta ad oggi tante delle giovani che scendono in piazza per manifestare contro la violenza di genere, a prescindere dall’etnia e dalla religione. Si legge nel loro comunicato: “Seppur non siamo nella posizione di giudicare una situazione complessa che, come abbiamo sempre detto e continueremo a dire è conseguenza diretta ed esclusiva dell’occupazione coloniale dello stato di Israele, riconosciamo come il colonialismo sia la principale fonte del patriarcato interno.”
Dall’estratto, emerge in modo chiaro e scioccante, sia dal punto di vista umano che ideologico, come NonUnaDiMeno abbia deciso di non condannare Hamas nonostante le prove e le testimonianze in merito alle violenze. Inoltre, l’associazione è arrivata ad accusare le vittime stesse di essere causa e parte dell’idea colonialista, un tipico atteggiamento di victim-blaming che usualmente l’organizzazione condanna fermamente. La stessa che sta promuovendo le manifestazioni in occasione del 25 novembre, che dovrebbe essere un giorno per tutti e certamente per ricordare un’altra battaglia, con grafiche sulle quali campeggia “PALESTINA LIBERA”.
I crimini hanno avuto luogo nei kibbutzim, piccoli villaggi che si basano sugli ideali socialisti, al Nova Festival, che si svolgeva per celebrare la pace, nei villaggi drusi e anche nei confronti degli arabi israeliani, che non rispecchiano assolutamente il “nazifascismo ebraico” denunciato dall’associazione, che ha taciuto sulle conseguenze di tali attacchi.
Questo si configura come indicatore eloquente di un sentimento che va oltre alla mera assenza di sostegno. Tale silenzio, al di là delle esigenze di evidenza, si configura come complice di una violenza inaudita perpetrata contro le donne, assumendo involontariamente un ruolo di consenso verso tali atrocità.
Addirittura l’orgoglio delle donne israeliane facenti parte dell’IDF (Israel Defense Forces) è stato etichettato come “pinkwashing“, ma la tensione dello Stato di Israele verso la parità di genere è visibile atterrando a Tel Aviv: è una realtà solida, promossa più dalla cittadinanza stessa che dall’attuale governo, incoraggiando le donne a emergere sia nell’esercito sia nella società.
È pertanto importante ricordare episodi di eroismo, come quello di Inbal Lieberman, responsabile della sicurezza del Kibbutz Nir Am, che da sola ha coordinato la resistenza per respingere i terroristi che tentavano di infiltrarsi. Oppure il caso del battaglione “Caracal”, unità speciale dell’IDF posizionata al confine con l’Egitto, che il mattino del 7 ottobre ha affrontato una battaglia durata 14 ore presso l’avamposto militare di Sufa contro i terroristi di Hamas. La presenza di donne che hanno avuto la forza di difendersi durante quel giorno tragico costituisce un potente antidoto contro la guerra psicologica orchestrata dal gruppo terroristico, il quale ha trascinato lo Stato ebraico in una spirale di dolore, odio e conflitto, compromettendo la sicurezza nazionale in ogni contesto.
Al loro fianco, è imprescindibile ricordare le donne che invece non sono riuscite a sopravvivere. La loro presenza in piazza quest’anno mancherà, mentre le loro voci cercano di farsi strada tra le macerie dei loro corpi e delle loro anime, di fronte all’indifferenza e alla mancanza di condanne nei confronti dei loro assassinii.
Questa è un’invocazione a un impegno costante e tangibile affinché ogni donna possa vivere libera dalla paura e dalla violenza. È un appello per una solidarietà e per una giustizia prive di confini geografici o politici, richiedendo un impegno continuo per un mondo in cui tali valori siano garantiti a tutte, indistintamente dalla loro origine.
L’Unione Giovani Ebrei d’Italia (UGEI) è un’organizzazione ebraica italiana. Essa rappresenta tutti gli ebrei italiani di età compresa tra i 18 e i 35 anni. L’organo ufficiale di stampa UGEI è HaTikwa: un giornale aperto al confronto di idee.