La vita davanti a sé, una storia che parla di attualità e di speranza

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di Susanna Winkler

 

Il 13 novembre, è uscito su Netflix il film La vita davanti a sé, diretto da Edoardo Ponti, secondo adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo scritto da Romain Gary. La protagonista è interpretata da Sophia Loren, assente dalle scene dal 2009, anno in cui interpretò la signora Contini in Nine di Rob Marshall.

Diversamente dal romanzo, ambientato nel quartiere popolare e multietnico di Belleville a Parigi, la località scelta per il film è Bari poiché, secondo le parole di Ponti, “bisognava trovare una città che avesse le stesse caratteristiche del romanzo pur essendo in un paese differente, che contenesse etnie, religioni e culture diverse, che avesse le giuste caratteristiche estetiche e che contenesse la luce e i colori della vita”. Quindi, i vicoli stretti di Bari vecchia sono al centro della maggior parte delle scene: viene prediletto il quartiere Libertà, uno dei più popolosi della città, in cui risiedono gruppi di diversa provenienza sociale.

Mohammed, detto “Momò”, è un dodicenne di origine senegalese che abita provvisoriamente in casa del dottor Cohen. Questi è il medico di Madame Rosà, un’ebrea sopravvissuta alla Shoah, che lavora ospitando nella sua casa bambini in difficoltà perché non debbano abitare in una casa-famiglia. A lei Momò ruba due candelabri d’argento, chiaro rimando alle origini ebraiche della donna, i quali le saranno poi restituiti proprio dal suo medico, che la convincerà ad accogliere anche Momò nella sua abitazione. Il bambino troverà in Madame Rosà la figura materna che ha perso da piccolo, e l’anziana donna scoprirà di potersi fidare di un bambino che sa mantenere i suoi segreti.

È una storia che parla di attualità, ma anche di speranza: amicizia e amore che nascono tra due persone apparentemente diverse per religione, cultura ed età, ma che si ritrovano unite perché entrambe sole. Entrambi con un estremo bisogno di qualcuno con cui condividere le proprie paure, le fragilità e i ricordi.

Pochi e velati sono i rimandi alla tradizione ebraica e alla storia passata di Madame Rosà, sopravvissuta alla Shoah, come mostra un primo piano del numero impresso sul suo polso. I suoi ricordi sono incentrati sul tentativo di insegnare a Joseph, un altro bambino affidato alle sue cure, a leggere l’ebraico per poter fare il Bar Mitzvà, oltreché sul ciondolo con il Magen David che spesso porta al collo. Rapidi e poco approfonditi sono anche i riferimenti alle persecuzioni naziste e al passato nei campi di concentramento: tra questi vi è la paura di Rosà per i medici, che “torturano” e “sperimentano”, citando le sue parole. La scena della retata degli immigrati clandestini da parte della polizia può apparire un rimando superficiale, oltreché inappropriato, per suggerire ricordi celati.

 

 

 


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