La Parashà della Settimana: Shemòt
di Jonathan Di Veroli
Questa settimana leggeremo la Parashà di Shemòt, che si apre con l’elenco di nomi dei figli di Giacobbe che scendono in Egitto. Un luogo dove la tranquillità e la stabilità del popolo ebraico vengono interrotte dall’ascesa del nuovo Faraone, che lo opprime riducendolo in schiavitù. In questo contesto nasce Moshè, il futuro leader del popolo ebraico. Per sfuggire al decreto del Faraone di uccidere i primogeniti ebrei, la madre lo inserisce dentro una cesta galleggiante e lo lascia andare sulle acque del Nilo. È in quel momento che la figlia del Faraone lo vede, lo salva, decide di prendersene cura e lo chiama Moshè, cioè “Salvato dalle acque”. Dopo molte disavventure e dure prove che negli anni lo portano lontano da casa, Moshè incontra il Signore, che lo incarica di tornare in Egitto per salvare il popolo ebraico rimasto schiavo, rassicurandolo riguardo il successo della missione.
La Parashà di Shemòt prende il nome dalla seconda parola del Capitolo e titola il secondo libro della Torah. Letteralmente significa “Nomi”, ma la traduzione classica (dei Settanta) è “Esodo”, perchè l’argomento centrale è l’uscita del popolo ebraico dall’Egitto verso la Terra promessa. I maestri ci fanno notare che nella parola שמות-Shemot si trovano le iniziali dei precetti (Mitzvot) più importanti per un ebreo, cioè Shabbat, Milà (circoncisione) e Tefillin. Questo per dimostrarci che, nonostante i figli di Giacobbe non vivessero più in Israele, non avevano comunque abbandonato l’etica della Torah e le Mizvot. Dentro la parola “Shemòt” poi, spiegano i maestri, possiamo trovare le iniziali della frase “Shenaim Mikrà Veechad Targum”, cioè “ogni ebreo dovrebbe leggere la Parashà settimanale due volte in ebraico e una volta in aramaico” (lingua parlata ai tempi dell’esilio babilonese). Questo metodo di studio ci insegna che sia giusto adattarsi al mondo circostante e studiare Torah nella lingua locale (quasi tutti all’epoca non parlavano più ebraico, ma aramaico), ma non si deve mai dimenticare che è l’ebraico la nostra lingua e quella degli angeli.
Shabbat Shalom!
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