La magia delle piccole cose – in Israele con i bambini in difficoltà
Viaggiare, conoscere, scoprire, queste sono le cose che ci arricchiscono come persone. Partiamo per entrare in contatto con nuove culture, modi di vita e di pensare diversi; ma altresì per vedere realtà che ci sembrano lontane o esagerate dai più, o che non consideriamo affatto, rimanendo fermi nelle nostre prevenzioni e paure.
Scoprire ciò che ci circonda è primordiale, perciò decisi di intraprendere un viaggio in Israele con un’organizzazione giovanile internazionale per capire, poter toccare con mano e portare un aiuto che a noi sembra piccolo e scontato ma per altri decisamente significativo. Ero partito per capire le origini di un popolo, comprendere al meglio i dettagli di un conflitto e vedere con i miei occhi l’effettivo stato delle cose; spesso in disaccordo con ciò che ci viene proposto dai media o da altri soggetti inclini a manipolare l’informazione a fini speculativi.
Mi recai a Gerusalemme, dove le tre principali religioni monoteiste vivono in armonia. Lo prova un semplice aneddoto sulla custodia delle chiavi della chiesa del Santo Sepolcro. Poiché le chiese cristiane non riuscivano a mettersi d’accordo sull’affidamento delle chiavi, si decise di darle in custodia alla comunità musulmana locale, che ancor oggi assolve questo compito aprendo le porte al mattino e richiudendole la sera. Ciò mostra che le relazioni che si basano sulla fiducia e l’apertura d’animo non sono confinate all’appartenenza religiosa; cosa che viene spesso dimenticata da troppa gente.
Ci spostammo dunque ad Ashdod, in un centro ricreativo per bambini problematici chiamato Beth Lavron. Ci accorgemmo che tante erano le differenze linguistiche, culturali ed educative che dovevamo affrontare, e questo aumentò la nostra paura di non essere in grado di aiutare questi bambini. Il mattino seguente arrivarono i ragazzini per formare i gruppi con cui avremmo passato i successivi dieci giorni. Capitai con dei giovani di età compresa tra 8 e 10 anni. Erano felici di vederci, tanto che ci vennero subito incontro per giocare; quasi capendo e volendo abbattere il nostro imbarazzo. La voglia di svagarsi prese allora il sopravvento. Correvano, saltavano e interagivano con noi, per quanto fosse possibile, dati gli evidenti problemi linguistici da parte nostra. Cominciammo. Mi ricordo che la prima cosa che feci fu insegnar loro il mio nome e imparare i loro, così da instaurare un rapporto. Giocammo allora a “nascondino”, “acchiapparella” e ad altri giochi che ci insegnavano loro stessi.
Già dal giorno seguente il legame divenne subito molto forte, riuscivamo a capirci sempre meglio, senza parlare la stessa lingua, ma con un effettivo dialogo basato sulle intenzioni e le emozioni. Ricordo con commozione un momento in cui uno dei bambini con cui legai maggiormente mi chiese il permesso di andare a prendersi un bicchiere d’acqua. Andò e ne riportò due: uno per sé e uno per me, senza che glielo avessi chiesto. Mi emozionai perché mi fece riflettere sulla essenzialità delle cose semplici come l’acqua e l’importanza dello svago in realtà difficili da vivere, nelle quali non si riscontrano ottime condizioni di vita. Ma il desiderio, nonostante la poca disponibilità, di condividere anche poco con me – un estraneo fino al giorno prima, divenuto un amico sincero, poiché sincere sono le emozioni che avevamo entrambi – era molto forte.
La settimana passò in fretta. Il nostro programma terminava con la consegna di zaini riempiti di tutto l’occorrente per poter studiare: mettevamo matite, libri, penne, quaderni… Arrivò l’ultimo pomeriggio. La tristezza della consapevolezza di doverci salutare era palpabile sia per noi sia per loro. Cercammo però di rimanere gioiosi e festosi. Prese inizio la “cerimonia”, uno spettacolo al seguito del quale sarebbero stati consegnati gli zaini. Finita la distribuzione, arrivò il momento di salutarci. La commozione prese il sopravvento e là dove c’erano stati sorrisi scendevano oramai lacrime. Salutai Maïk che con suo fratello Jonny se ne tornò a casa, malgrado il forte desiderio di passare un altro pomeriggio insieme a evadere dalla realtà quotidiana.
Al termine di quest’esperienza cambiai la mia visione del mondo. Divenni consapevole delle difficoltà che troppe persone devono affrontare. Il centro, inoltre, riuniva bambini di diverse religioni e nazionalità, perché passassero momenti di svago in compagnia. Decisi quindi di adottare un comportamento più aperto alla diverse realtà con le quali condividiamo questo mondo e imparare a conoscere di più le persone oltre la loro religione o le loro preferenze politiche. Sono passati più di quattro anni e ancora ho come sfondo del cellulare un selfie fatto da Maïk; questo per non dimenticarmi mai di lui e per ricordarmi della fortuna che ho e che disgraziatamente troppe persone in giro per il mondo sognano soltanto.
L’Unione Giovani Ebrei d’Italia (UGEI) è un’organizzazione ebraica italiana. Essa rappresenta tutti gli ebrei italiani di età compresa tra i 18 e i 35 anni. L’organo ufficiale di stampa UGEI è HaTikwa: un giornale aperto al confronto di idee.