LA COMPLESSITÀ OLTRE L’APPARENZA, IL CONFLITTO ISRAELO-PALESTINESE
HaTikwa (C. Heimler e M. Di Porto) – Il conflitto israelo-palestinese, una delle questioni più complesse e controverse dell’ultimo secolo, è ancora lontano da una soluzione definitiva; ancora oggi si cerca di trovare un capro espiatorio a cui addossare la colpa, spesso semplicizzando e banalizzando le varie problematiche, analizzandolo con una mentalità chiusa ad altri punti di vista che non sono vicini al proprio. Il conflitto invece deve essere letto con una visione ampia, aperta a comprendere sia le ragioni israeliane sia quelle palestinesi. Troppo spesso si formulano giudizi errati che non tengono conto di principi fondamentali come il diritto all’esistenza dello stato d’Israele. Frequentemente si reputano gli ebrei colpevoli di aver usufruito illegittimamente del diritto ad avere uno stato, basandosi sull’idea che l’ebraismo, in quanto solamente una religione, non dovesse dare loro la possibilità di avere una nazione di riferimento, di creare uno Stato. La religione non è però l’unica componente dell’identità ebraica, in quanto gli ebrei costituiscono un popolo, con una cultura e una storia. Basti pensare che il più grande rappresentante del sionismo, Theodor Herzl, non si sentisse particolarmente legato alla religione, ma comunque trovasse necessario preservare l’identità ebraica, collettiva e individuale. Infatti, seppur Israele sia sempre stato il punto di riferimento ideale del popolo ebraico, e nasca come Stato in cui tutti gli ebrei verrebbero accolti, rimane un paese multietnico e rispettoso di ogni cultura. L’avere questo diritto, conquistato dai primi sionisti ispirati dagli ideali nazionalisti ottocenteschi, non esclude però che la creazione dello stato ebraico abbia cambiato lo scacchiere mediorientale; e la rottura degli equilibri precedenti ha quindi portato a gravi problematiche.
Dal punto di vista di molti ebrei, le terre palestinesi, che poi sono diventate parti del futuro stato, sono semplicemente state comprate legalmente; mentre dal punto di vista arabo, i sionisti si sono appropriati di territori dove i palestinesi vivevano in pace. Come sempre la realtà è più complessa. La delicata situazione attuale appena delineata, per essere capita fino in fondo, pretende un’analisi storica, che evidenzi soprattutto il periodo precedente alla creazione dello stato ebraico, in quanto fondamentale a comprendere le complesse dinamiche tra i due popoli. Dando queste chiavi di lettura vogliamo cercare in questo articolo di discutere riguardo l’origine della problematica dei profughi palestinesi. La società palestinese, prima dell’arrivo in massa degli ebrei, è divisa in due classi principali ben delineate: latifondisti, che detenevano la maggior parte dei terreni, e i contadini, che lavoravano in questi possedimenti. Gli ebrei, a cominciare dalla fine dell’ottocento (prima aliyah:1881/1903), spinti da uno spirito sionista e scappati dal crescente antisemitismo, si sono inseriti nel contesto sociale della regione palestinese (appartenente all’impero ottomano dal XIV secolo fino al 1918), con l’intento di costruire una comunità autonoma, nelle stesse terre che storicamente erano appartenute al popolo ebraico due millenni prima.
Per la fondazione delle prime comunità agricole quindi, gli ebrei hanno dovuto acquistare i terreni dai latifondisti palestinesi; a questi ultimi conveniva accettare la proposta d’acquisto, in quanto le terre nelle mani dei contadini palestinesi erano poco produttive. Gran parte dei contadini rimangono sia senza lavoro, sia senza casa riversandosi nelle città. Basti pensare che nel 1931, anche a causa del crollo della borsa di New York del 1929, (quando la Palestina è ormai sotto il protettorato inglese) la percentuale degli agricoltori senza terra è del 30%, l’equivalente di 20.000 famiglie. Parallelamente da parte ebraica vi è una forte crescita economica incentivata dagli stessi inglesi; questi ultimi preferivano sostenere gli ebrei, i quali avevano una produzione di beni più fiorente rispetto ai palestinesi, grazie ad organizzazioni sioniste centralizzate, (agenzia ebraica, KKL) finanziate da donazioni di ebrei da tutto il mondo. Nasce quindi un sentimento di avversione nell’animo della popolazione palestinese, verso gli ebrei, ritenuti la causa della loro povertà e delle loro misere condizioni; sentimento incentivato dalla stessa leadership palestinese. Altro fattore fondamentale che scatena la tensione della popolazione palestinese è la percezione, effettivamente vera, che la percentuale della presenza ebraica in Palestina si stesse incrementando (seppure una presenza ebraica vi fossi sempre stata, ma non aveva mai superato le 20.000 persone) al punto da far diventare gli stessi palestinesi una minoranza nelle terre da loro abitate per secoli, fatto quindi difficile da accettare. Anche la classe dirigente (latifondisti) prova insofferenza verso i sionisti, ritenuti responsabili, insieme all’Inghilterra, della non creazione dello stato arabo promessa dagli stessi inglesi. Infatti, quest’ultimi, avevano garantito lo stesso territorio agli arabi con l’accordo di Damasco nel 1915 e agli ebrei con la dichiarazione Balfour del 1917. Tutti questi fattori portano a varie rivolte: tra le più importanti vi sono quelle degli anni 1920/21, 1929, e la più significativa nel 1936/39; al termine di ogni insurrezione l’Inghilterra, per sedare gli animi palestinesi, ha promulgato un libro bianco (in totale 3) con il quale limitava fortemente l‘immigrazione ebraica nel futuro stato di Israele. Il clima di tensione spinge gli inglesi, stravolti dalla guerra mondiale, a disinteressarsi della Palestina delegando all’Onu la ricerca di una soluzione; le Nazioni Unite quindi nel novembre 1947 approvano la risoluzione 181 con la quale si prevede la spartizione del territorio in due stati differenti, uno ebraico (56% dei territori compreso gran parte del Negev) e uno palestinese (44% dei territori). La risoluzione non risolve il problema e anzi subito dopo la sua approvazione ha inizio la guerra (civile) tra i due schieramenti che poi sfocerà, a seguito della dichiarazione d’indipendenza dello stato di Israele il 14 maggio 1948, nella guerra d’indipendenza che vede contrapposti il neo-stato ebraico e cinque eserciti arabi venuti a supporto dei palestinesi. Gli ebrei per conquistare i territori garantiti dalla risoluzione 181 mettono in atto il piano Dalet, che aveva anche lo scopo di conquistare Gerusalemme, città che secondo le nazioni unite doveva invece essere internazionale.
Durante le operazioni militari però la Tzhaal (esercito ebraico) distrugge numerosi villaggi arabi (200/300), spesso in modo brutale.
Nel corso della storia, le cause che hanno portato all’attuazione del piano Dalet, sono state interpretate secondo molteplici punti di vista ancora al centro di un dibattito storico: probabilmente l’esercito ebraico si poneva come obiettivo assicurarsi che nessun palestinese armato e pericoloso potesse minacciare le azioni militari israeliane, e quindi tenta con questa manovra di togliere loro un rifugio; altra interpretazione vuole che lo scopo del piano Dalet fosse la creazione di uno stato ebraico a forte maggioranza ebraica, dato che nei territori assegnati dall’Onu con la risoluzione 181 Israele era demograficamente composta dal 60/70 % di ebrei e 30/40 % di palestinesi. L’obiettivo era quindi incentivare, talvolta anche violentemente, la migrazione palestinese verso altri territori, non per “pulizia etnica” ma per strategia politica, in quanto si sarebbe creato lo stato ebraico con il 40 % dei cittadini contrari alla fondazione dello stato stesso. Anche da parte araba però l’esodo fu incentivato, consigliando vivamente ai palestinesi che abitavano nei territori israeliani di lasciare le proprie case in quanto gli eserciti arabi avrebbero così più facilmente sbaragliato le forze ebraiche, promettendo che alla fine degli scontri ognuno sarebbe tornato nei luoghi d’origine. Con la vittoria d’Israele nella guerra del 1948/1949, 700.000 palestinesi diventano quindi profughi, un numero leggermente superiore ai 600.000 profughi ebrei sefarditi espulsi dagli stati arabi a seguito della dichiarazione d’indipendenza d’Israele, che si stanziano nel neo-stato creando non pochi problemi economici e demografici. C’è un responsabile, un colpevole? Trovare un capro espiatorio non è sicuramente produttivo bensì è importante comprendere come ogni attore di questa vicenda abbia le sue responsabilità: la leadership palestinese non è stata capace di tutelare la popolazione povera in favore solo dei propri esclusivi interessi coltivando un sentimento di avversione che ha portato a guerre e distruzione; l’Inghilterra ha promesso ad entrambi i popoli di costituire uno stato o un focolare (nel caso della dichiarazione Balfour) nello stesso territorio, causando nel tempo contrasti e ribellioni che non è stata in grado di affrontare e risolvere, delegando le proprie responsabilità nel momento del bisogno all’Onu; Israele che con il piano Dalet ha causato la distruzione di numerosi villaggi palestinesi, costringendo quindi gli abitanti a lasciare le proprie case; ed infine gli stati arabi che, non prendendo in considerazione l’idea di un accordo diplomatico con Israele, hanno attaccato il neo-Stato alla nascita oltre che incentivato la migrazione palestinese dallo stato ebraico, senza integrare queste centinaia di migliaia di persone negli stessi territori arabi, non fornendo loro la cittadinanza e facendoli vivere, nella maggior parte dei casi, in campi profughi.
Eventi avvenuti più di 70 anni fa, ancora hanno il loro peso nella realtà attuale, avvenimenti passati che scandiscono il presente, un presente più complicato di molti altri; ed è proprio la complessità della situazione attuale a non permette quindi di sentenziare soluzioni come se fossero ovvie, ma pretende un’osservazione acuta, attenta. Ed è facile alzare muri mentali (e persino fisici) di fronte a questioni del genere, guardando solo dal nostro punto di vista, dalle nostre ragioni e ai nostri interessi, ma al contrario bisogna fare uno sforzo in più, ascoltando l’altro per capire l’insieme. Se questi principi non verranno condivisi e applicati, sarà l’odio a regnare, l’incomprensione, e la soluzione all’Orizzonte, con l’avanzare del tempo, sarà sempre più lontana.
L’Unione Giovani Ebrei d’Italia (UGEI) è un’organizzazione ebraica italiana. Essa rappresenta tutti gli ebrei italiani di età compresa tra i 18 e i 35 anni. L’organo ufficiale di stampa UGEI è HaTikwa: un giornale aperto al confronto di idee.