La battaglia contro chi vuole ridimensionare la memoria della Shoah

di David Zebuloni
Lily Ebert è venuta a mancare all’età di cento anni. Era una testimone della Shoah, una sopravvissuta ad Auschwitz diventata celebre in tutto il mondo grazie ai filmati pubblicati in rete dal nipote Dov. “Perché non raccontiamo a tutti la tua storia?”, ha proposto lui. E lei ha accettato. Così, seduta sulla sua soffice poltrona nel salotto di casa, Lily si è rivolta da nonna ai giovani sparsi per il mondo, raccontando con dolcezza il suo passato difficile e diventando un vero fenomeno social con milioni di followers su TikTok e su Instagram. Il suo intento di rendere accessibile la tragedia della Shoah ai giovanissimi è stato ampiamente raggiunto. O così almeno pensavamo. Il 9 ottobre i media di tutto il mondo hanno riportato la notizia della morte della nonna-sopravvissuta-influencer. Ne cito uno a caso: il New York Times. Erroneamente, ingenuamente, in un periodo in cui sui social si leggono solamente commenti colmi di odio nei confronti degli ebrei, ho cercato un po’ di conforto in quegli addii rivolti a una persona che era un indiscusso simbolo di pace. Ero infatti convinto che i commenti al post pubblicato dal NYT fossero pieni di affetto e di gratitudine rivolti a Lily, ma mi sbagliavo. Mi sbagliavo clamorosamente. Non potevo credere ai miei occhi. “Cosa ne pensava lei della guerra a Gaza?”. “«Mai più» significa fermare il genocidio a Gaza”. “Trovava anche lei che ci fosse una somiglianza tra Auschwitz e Gaza?”. Decine e decine di commenti facevano riferimento alla guerra d’Israele contro il terrorismo, e non alla scomparsa di una signora di cento anni sopravvissuta al vero genocidio della storia. Ed ecco che in quel preciso istante ho realizzato ciò che ho finto di non vedere per molto tempo: più di qualunque altro danno recato a Israele e al popolo ebraico nell’ultimo anno, i sostenitori della causa palestinese hanno oltraggiato la memoria della Shoah. Il cambiamento è avvenuto proprio davanti ai miei occhi, appena dopo il 7 ottobre. Prima con un certo pudore. Poi, in modo del tutto sfrontato. I sostenitori del popolo palestinese e della sua leadership terrorista si sono appropriati in un battibaleno di tutta quella terminologia utilizzata fino ad allora per raccontare la Shoah. E non a caso. La strategia era ed è studiata nei minimi dettagli: appropriarsi della storia del popolo ebraico per condannare lo Stato d’Israele. Un piano geniale direi. Subdolo, certo, ma assolutamente geniale. I manifestanti per Gaza sono riusciti infatti ad incolpare le vittime del nefasto nazifascista di essere diventate carnefici a loro volta, così da pulirsi la coscienza, levarsi di dosso il fardello della Memoria, rinunciare alla responsabilità troppo grande da sopportare di aver commesso un vero genocidio e creare così una simmetria storica che permettesse loro di vivere in pace con loro stessi e con il loro passato. Come a dire: “Beh, non siamo gli unici ad aver commesso un genocidio. Ecco, lo avete fatto anche voi”. Invece no, siete gli unici. Così Gaza è diventata un “lager a cielo aperto”, la battaglia contro il terrorismo di matrice islamica è diventata un “genocidio” e la guerra di sopravvivenza d’Israele è diventata la “soluzione finale”. Parole che ci suonano famigliari? Purtroppo sì. Dal 7 ottobre a oggi, il popolo ebraico è vittima di una violenza coniugata al passato, al presente e al futuro: non soffre solo della guerra in corso e di quella che forse lo attende, ma soffre anche e soprattutto di ciò che gli è stato sottratto, di ciò che gli viene negato, ovvero la sacrosanta legittimità di provare dolore per il passato vissuto. Un affronto che le nuove generazione, mi auguro, sappiano affrontare con lucidità, ma il mio pensiero va inevitabilmente ai sopravvissuti di Auschwitz. A coloro che hanno ancora il numero tatuato sul braccio e l’odio marchiato nell’anima. Penso alla mortificazione che provano Lily, Sami, Edith nell’essersi sentiti presi in giro per tutto questo tempo. Alle parole vuote “mai più” che in un attimo sono diventate “from the river to the sea”. Uno sfregio alla storia. Uno sfregio all’umanità. Penso a tutte quelle volte che Liliana Segre mi ha detto che, non appena l’ultimo testimone sarà scomparso, la Shoah verrà dimenticata. E di come io, di nuovo erroneamente e ingenuamente, le assicuravo che si sbagliava, che non sarebbe successo, che la mia generazione avrebbe saputo tramandare i suoi insegnamenti: la memoria di ciò che è stato, di ciò che mai più… Beh, avete capito. Invece aveva ragione lei. Ha sempre avuto ragione lei. Eccone la prova lampante. Gli ultimi testimoni sono ancora vivi e la Shoah è già stata dimenticata. Cancellata con un colpo di spugna. Penso al discorso tenuto dalla stessa Liliana al Memoriale della Shoah l’ultimo 27 di gennaio, il Giorno della Memoria, quando le è stato cordialmente consigliato di starsene a casa perché a nessuno interessa più della Shoah. Lei invece si è presentata nel luogo in cui la sua vita è cambiata per sempre, e ha detto: “Trovo sbagliato mescolare cose completamente diverse, come hanno fatto tanti che hanno pensato di mettere in discussione il 27 gennaio per quello che sta succedendo a Gaza. Evidentemente hanno un bisogno spasmodico di fare pari e patta con la Shoah, di togliere agli ebrei il ruolo di vittime per antonomasia, di liberarsi da un inconscio complesso di colpa.” Poi ha aggiunto: “Questo fenomeno segnala anche un fallimento educativo. In questi più di vent’anni dall’approvazione della legge, sembra che qualcuno abbia scambiato il Giorno della Memoria per una specie di regalo fatto agli ebrei. Un regalo da revocare se gli ebrei si comportano male. Ma allora siamo davanti a una catastrofe culturale. Il 27 gennaio non è fatto per gli ebrei. Gli ebrei hanno 365 giorni della memoria all’anno, non gli serve il 27 di gennaio. Il 27 gennaio serve per ricordare agli europei un crimine europeo e agli italiani, purtroppo, un crimine anche italiano”. Ecco, nessuno come Liliana Segre sa esprimere dei concetti complessi in modo semplice. È proprio così. Proprio come dice lei. Molti italiani e molti europei si sono autoconvinti di aver gentilmente concesso agli ebrei il privilegio di ricordare (insieme, magari) la loro strage, e si sono altrettanto autoconvinti di poter sottrar loro questo privilegio quando più lo ritengono opportuno. Si sono sbagliati. Si sono macchiati di un’altra colpa imperdonabile. Il ricordo della Shoah non è discutibile, non è rimodellabile, non è rivisitabile. Il ricordo della Shoah è sacro. La Shoah non è un nome in codice che esprime ogni forma di violenza, di scontro, di guerra, di conflitto, di ingiustizia. Dobbiamo smettere di sentirci autorizzati a utilizzare questa parola con tanta leggerezza e tanta disinvoltura. La Shoah è lo sterminio specifico e mirato del popolo ebraico per mano dei nazisti. La Shoah è prendere sei milioni di persone, farle salire su un treno verso ignota destinazione, condurli in un campo di sterminio, rasarli-tatuarli-gasarli- bruciarli. Questa è la Shoah, nient’altro che questo. La Shoah non è certo un conflitto geopolitico tra due popoli sorto in seguito. La strumentalizzazione della Shoah per giustificare l’odio verso gli ebrei e verso Israele è, a mio avviso, quanto di più abominevole abbia avuto l’Occidente da offrire nell’ultimo anno. Ad un anno dal pogrom, così com’è stata la guerra tra Israele e Hamas scoppiata in seguito al 7 ottobre. Penso alla lista di proscrizione dal titolo “Agenti sionisti”, quella diventata tanto popolare nel web, che riporta i nomi e i ruoli di tutti quei personaggi che non hanno ceduto alla pressione della propaganda malata in corso contro Israele. Penso ai tanti nomi che compaiono in quella lista, e poi penso di nuovo a lei. A Liliana Segre, a Nonna Liliana, che accanto al suo nome vi è scritto: superstite dell’Olocausto. Penso alla persona che ha battuto sulla tastiera queste parole, il nome di una signora di 94 anni e il titolo di sopravvissuta ad uno sterminio, per perseguitarla di nuovo. Penso a quell’ignobile essere che ha poi editato la fotografia della medesima sopravvissuta, applicandovi sopra un’oscena barra rossa. Ecco, penso a lui e mi domando se, mentre lavorava serenamente al computer, la mano gli è tremata. Anche solo per un istante. Se ha provato il minimo rimorso, o anche solo il beneficio del dubbio che stesse facendo una cosa spregevole. Voglio essere consciamente ingenuo e pensare di sì. Se così fosse, se il responsabile di tanta brutalità ha davvero esitato un attimo prima di condannare Liliana all’ennesima gogna, forse non tutto è andato perduto. Come recita un antico proverbio ebraico, basta la fiamma di una piccola candela per tenere accesa la speranza. E io aggiungo: basta una goccia di rimorso per schiarire il mare nero dell’indifferenza.

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