Kippà? Ma nishtanà

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kippahIn un clima di indifferenza pressoché generale al di fuori del mondo ebraico, abbiamo visto, negli ultimi tempi sempre di più, il susseguirsi in tutta Europa di attentati, intimidazioni o semplici situazioni spiacevoli ai danni di molti nostri correligionari. È vero che ciò avviene in un momento storico in cui tutta l’Europa, e non solo, si ritiene sotto la costante minaccia del sedicente Stato islamico, ma è altrettanto evidente, dato il numero esiguo della minoranza che il popolo ebraico rappresenta nel mondo, che esiste un problema più antigiudaico che antisemita.

Fa notizia, dopo l’ultima aggressione di Marsiglia, l’invito fatto agli ebrei dalle autorità francesi di non indossare pubblicamente la kippà o altri simboli distintivi della nostra fede. Forte la reazione del Rabbino capo di Francia Haim Korsia: “Continueremo a portare la kippà”. Forte anche la reazione dell’UEJF, Union des Etudiants Juifs de France, che si è fatta promotrice di un iniziativa che consisteva nel girare per le strade di Parigi proponendo ai passanti (uomini e donne) di farsi una foto con la kippà in testa e un cartello con suscritto l’hastag #kippapeur.

Da qui le imitazione nostrane: Il Foglio, in prima pagina, invita tutti per la Giornata della Memoria del 27 gennaio a indossare una kippà. Tralasciando l’infelice scelta della data, con cui personalmente faccio davvero fatica a vedere una connessione, è interessante osservare come il mondo ebraico abbia reagito alla proposta. C’è chi aderisce con entusiasmo, chi coerentemente con le proprie abitudini sostiene che non la indosserà e chi per le stesse ragioni sostiene che la continuerà a indossare.

Haim Korsia, Rabbino Capo di Francia
Haim Korsia, Rabbino capo di Francia

Siamo sicuri che siano queste le risposte giuste da dare? Non si rischia forse di politicizzare un simbolo intimo, quale è la kippà, che dovrebbe ricordarci della presenza divina al di sopra di noi?

Io ormai da molti anni indosso la kippà tutti i giorni: a scuola, per strada, ora all’università. Forse mi è difficile intendere il senso di questa “reazione d’orgoglio” nell’indossare qualcosa che considero parte del mio vestiario quotidiano. Tanto più mi riesce difficile accettare l’idea che dei non ebrei intendano usare un mio simbolo religioso per una campagna che lasciano intendere, non troppo velatamente, di mettere in opposizione al World hijab day del primo febbraio, in una sorta di guerra, questa sì molto velata, tra civiltà in cui quella ebraica vuole essere chiamata a rappresentare i valori dell’occidente.

Mentre questi pensieri mi balzano per la mente, però, interviene dentro di me un inaspettato senso di déjà vu. Ma nishtana ha-laila ha-zeh mi-kol ha-leilot? Durante i giorni di Pesach siamo soliti cambiare le nostre abitudini. Modificare sensibilmente la nostra vita per renderci conto di chi siamo e di quale sia la nostra storia. In questi anni abbiamo visto in tutto il mondo nascere iniziative come lo Shabbat project: giornate in cui tutto il popolo ebraico si dovrebbe ritrovare unito a condividere  tramite lo shabbat un momento di comunità. A prescindere dall’effettivo risultato in termini di ritorno di partecipazione nelle nostre comunità a fronte di queste iniziative, resta comunque valido il concetto di fondo. Forse allora ha senso anche che tutti gli ebrei si trovino insieme in uno stesso giorno a indossare la kippà per ricordarci ancora di più chi siamo, quale sia il significato di quel pezzo di stoffa e quale sia realmente ciò che ci rende, dovunque nel mondo, un unico popolo.

Filippo Tedeschi, torinese, è vicepresidente Ugei
Filippo Tedeschi, torinese, è vicepresidente Ugei


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