Italia-Israele, un legame di…vino

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HaTikwà (R.Limentani)Aaron Fait, esperto di desertificazione, biotecnologie e fisiologia molecolare, ricercatore e professore presso la Ben Gurion University, è nato 46 anni fa a Bolzano da madre ebrea. Nel 1992 decide di effettuare l’Aliyah e stabilirsi per il primo periodo nel kibbutz Hazorea, lavorando come mungitore in un allevamento di mucche. Dopo aver conseguito una laurea in biologia e un master in ecologia e studi ambientali presso la Tel Aviv University, conclude il suo straordinario percorso di studi con un dottorato in biochimica all’istituto Weizman. Nel 2014 ha preso le redini del programma israeloitaliano “Irrigate”. Tale idea vede l’irrigazione goccia a goccia applicata nei vigneti con l’ ausilio di sensori capaci di monitorare in tempo reale piante, condizioni climatiche e suolo. L’obiettivo era far fronte ai cambiamenti climatici che hanno colpito il Friuli negli ultimi 10 anni, salvaguardandone e ottimizzandone i raccolti con le tecniche innovative israeliane.

Come procede il progetto Irrigate a 5 anni dal suo inizio? Ha dato i risultati previsti e desiderati?
Irrigate è stata una avventura anche per conoscere l’ambiente dei viticoltori italiani, ci ha permesso di utilizzare la loro esperienza ed allo stesso tempo aiutarli a prendere delle decisioni di management delle risorse idriche in maniera più attenta. L’irrigazione goccia a goccia nella vite non è ancora ovvia, ma è sempre più comune. Ora la sfida è ottimizzarla, perché un Sirah non utilizza l’acqua come un Cabernet Sauvignon, e quindi necessita di una strategia irrigua diversa. Gli esperimenti nel deserto ci hanno permesso di studiare con precisione l’effetto di questo metodo d’irrigazione su diverse tipologie di vite, senza la preoccupazione di precipitazioni improvvise e quindi con maggiore controllo delle condizioni di crescita. Il deserto funge quindi da laboratorio a cielo aperto, dove poter testare metodi di agricoltura sensibili ai cambiamenti climatici. Irrigate quindi ha permesso l’interazione tra viticoltori, scienziati, una società privata, Netafim, per sviluppare metodi adatti alle zone del Friuli. Senza contare la perfetta collaborazione dei due Governi, italiano e israeliano.

Sono aumentate le collaborazioni a livello Internazionale per il trasferimento del know-how israeliano nel mondo? Queste conoscenze sono state esportate in Africa o in paesi con grandi territori desertici e mancanza di acqua?
Irrigate è finito, ma sono nati altri progetti, tra cui un progetto europeo sui porta-innesti e sulla tolleranza alla siccità e salinità di cui  Udine ne è il capofila, ma anche un progetto in Slovenia sull’utilizzo di acqua riciclata nella viticoltura. Contemporaneamente Israele ha programmi di ricerca in collaborazione con istituzioni africane. Il nostro istituto ogni anno porta studenti di Master e Dottorato in Africa a partecipare a progetti legati all’agricoltura e alle risorse idriche. Nel mio laboratorio, fino ad oggi ho cresciuto studenti dall’Etiopia e dal Ghana, che sono tornati e torneranno nel proprio paese con know-how israeliano.

Quali benefici può trarre una pianta da frutto in un clima desertico?
Risolto il problema dell’acqua con sistemi di irrigazione, riciclaggio e desalinizzazione, la vite cresce bene nel clima del Negev, le produzioni dei Nabatei a Avdat, dei bizantini e del popolo ebraico ne sono la testimonianza. Gli sbalzi di temperatura tra giorno e notte favoriscono la maturazione e lo sviluppo del metabolismo secondario degli aromi. La bassa umidità riduce il rischio di sviluppo di muffe ottenendo quindi una minore necessità di spruzzare chimica sul frutto, cosa pericolosamente comune in zone più umide. Però per poter riuscire a fare buon vino serve anche proteggere il frutto dagli agenti ambientali che lo possono nuocere. Le radiazioni solari per esempio, nel deserto possono portare il frutto alla disidratazione , all’apparizione di bruciature, per non parlare del livello degli zuccheri (e quindi della percentuale alcolica nel vino) e della perdita di acidità e colore.

Di quali altre ricerche si sta occupando attualmente nel centro Blaustein?
Oggi lavoriamo su progetti che includono la variabilità genetica della vite e la sua risposta a stress ambientali. Cresciamo una trentina di varietà diverse, in due località nel deserto del Negev e ne seguiamo lo sviluppo del frutto, la composizione chimica, e la qualità del vino. Sempre legato alla vite, abbiamo un progetto su cellule staminali di acino, ovvero cellule cresciute in laboratorio che producono polifenoli, composti antiossidanti e antinfiammatori naturalmente prodotti dalla vite, anche se queste cellule lo fanno tutto l’anno e possono essere manipolate geneticamente per aumentare la produzione di questa o quella molecola. Una volta estratte, possono essere utilizzate per la farmaceutica o per il settore alimentare. Lavoriamo anche molto sul pomodoro, un modello per la genetica delle piante, ma anche un’importante cultura in Israele, per il mercato locale e per l’esportazione. Stiamo lavorando a migliorare la tolleranza a salinità e siccità di questa pianta, soprattutto con attenzione all’apparato radicale.

Cosa la portò, in primo luogo, ad avvicinarsi al mondo della biologia vegetale e conseguentemente ad intraprendere i suoi studi in Israele?
Un giorno di primavera durante il laboratorio di fisiologia animale a Tel Aviv capii di non aver fatto i conti con la mia incapacità di effettuare esperimenti sugli animali. Così crebbe l’interesse per l’ecologia, la genetica delle popolazioni di piante e gli ecotipi delle sottospecie adattate all’ambiente. Infatti, le piante non potendo muoversi da un luogo all’altro hanno dovuto sviluppare una miriade di sistemi di adattamento all’ambiente grazie ai quali crescono, fioriscono, fanno frutti, disperdono i propri semi e poi germinano. In tutto questo la chimica gioca un ruolo fondamentale. Dalla protezione contro le radiazioni solari, al mantenimento dell’equilibrio idrico nei tessuti, alla difesa diretta da erbivori. In questo mondo esistono anche casi di collaborazione tra piante ed insetti basati sulla chimica: vi sono insetti che vivono in stretto rapporto con specifiche piante perché queste producono composti chimici che si accumulano nel corpo degli insetti, fungendo da repellenti per i loro predatori. Lo stesso insetto può avere la funzione di fertilizzare la pianta, o di cacciarne i parassiti o predatori. Per quanto riguarda Israele si parla di un amore a prima vista, la sua varietà ecologica, fitogeografica e culturale mi ha rapito. Il deserto è un ambiente in cui mi sento più a contatto con la terra, Madre Terra, senza filtri, un contatto pulito; nel deserto posso ascoltare il silenzio, emozionarmi per i colori dei fiori, per la forza delle piante, e per la grandezza del tempo che ne ha modellato le colline.

Pensa che con la rivalutazione di un area pari al 60% del paese – come quella del Negev –  potremmo finalmente sperare di esportare in grandi quantità prodotti agricoli Israeliani cresciuti senza privare la popolazione di terre abitabili e di acqua?
Il Negev è il futuro di Israele. Qui si esprimerà la capacità di Israele nella ricerca e nello sviluppo, sia agricolo ma anche sociale. Prendi Beer Sheva, una città che ha visto un boom economico significativo, che ha sviluppato settori dell’Hi-tech e della ricerca nel campo della cyber security, che vedrà presto anche moltiplicare la ricerca medica con il progetto di un nuovo ospedale all’avanguardia della medicina mondiale. Pensa alla popolazione di Beer Sheva , a quella degli studenti della sua università, ebrei e arabi che studiano insieme, la società beduina che cambia grazie anche allo sviluppo economico e agli studi delle loro donne beduine nel settore dell’educazione. Beer Sheva, capitale del deserto, fiorisce e con lei il Negev intero. Se sapremo come aiutarlo.


Il Negev, la zona desertica dove Aron Fait vive, lavora e studia, è stato per due anni, la mia seconda casa. La base in cui ho prestato il mio servizio militare, erá proprio là. Per due anni ho fatto, quasi settimanalmente, in autobus la tratta Ber Sheva-Mitzpè Ramon, passando proprio 4 per le colline descritte da Aron. Guardavo annoiato dal finestrino dell’ autobus, quel deserto roccioso e polveroso di colore giallo ocra, domandandomi cosa si potesse tirare fuori da questo territorio così inospitale e brullo, finché un giorno mi sono imbattuto per caso in un articolo scientifico su Aaron Fait. Ricordo come se fosse ora, che, finito di leggere, alzai la testa e guardai fuori dal finestrino e tutto mi apparve sotto una luce differente: quel paesaggio monotono cominciò a prendere vita e colore. Il suo aspetto mutò. Divenne verde. Forse fu proprio così che lo vide David Ben Gurion. Da quel momento, ogni mio viaggio da e per la base fu diverso. Fu un viaggio in cui l’immaginazione apriva la strada ad un verde speranza.


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