Israele, tra annessione e pace

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di Gavriel Hannuna

 

“Annessione”: si sentiva solo questa parola quando si parlava di Israele negli ultimi mesi. C’è chi la definisce doverosa per la sicurezza israeliana, chi la vede come un ostacolo per la pace, e chi pensa che sia la riconferma dell’apartheid nei confronti dei palestinesi. Mentre tutti discutevano di questa nuova mossa del governo israeliano, Netanyahu ha tirato fuori un nuovo bel coniglio bianco dal suo cappello: la pace con gli Emirati Arabi Uniti.

Giovedì 13 agosto, Trump twitta riguardo a “un trattato di pace storico” tra Israele e gli EAU, che iniziano un processo di normalizzazione diplomatica, probabilmente solo l’inizio di una florida alleanza economica. Netanyahu decide di lasciar perdere l’idea dell’annessione che gli ronzava nella testa da tanto tempo, anche perché secondo il principe emiratino byn Zayed era tra le condizioni per l’accordo.

Mentre in molti gioivano per il grande accordo, il New York Times, The Guardian e altre importanti testate giornalistiche si chiedevano: “Cosa ne sarà adesso dei palestinesi? E la pace?”. L’accordo infatti viene visto come un altro passo indietro, lontano dalla Pangea araba che i leader palestinesi sognavano dal ‘48, tanto che più il tempo passa e più l’Autorità Palestinese si trova isolata nel suo odio per Israele. E forse sta qui la risposta alla domanda: “E la pace?” La pace con chi esattamente? Con chi è pronto a mettere in pericolo civili innocenti per nascondere delle armi? No. La pace non è un regalino che si può lasciare sotto l’albero. La pace si raggiunge con (tanto) tempo e (infiniti) sforzi da entrambi i lati, innanzitutto  nel tentativo di cambiare la propria mentalità.

Nel ‘74 Arafat disse alla Fallaci che non ci sarebbe stata la pace fin quando Israele fosse esistito, e le stesse parole sono ancora nella bocca di Abu Mazen. Ma forse qualcosa è cambiato in 46 anni; forse i palestinesi sono stanchi di combattere e stanchi dei loro despoti che si intascano i soldi degli “aiuti umanitari”; forse piano piano qualcosa sta cambiando anche dall’altra parte del muro. Quel che è certo è che per aiutare questo processo ognuna delle due parti deve continuare a fare passi avanti, anche se l’altra parte non sembra neanche muoversi o se i passi avanti sono lenti e indecisi.

Mentre scrivevo questa breve riflessione, non ho potuto fare a meno di pensare alla facoltà di ingegneria civile del Technion. Università nella quale studio. Ecco, mi capita di passare spesso là davanti per salutare qualche amico, e non posso non notare quanti arabi ci siano in quella facoltà. Salta subito all’occhio un muro invisible tra arabi (o meglio arabi israeliani) ed ebrei: ognuno sta nel suo gruppo, e i gruppi non si mischiano né interagiscono. Ci sono un po’ di arabi che fumano una sigaretta e bevono un caffè, e accanto degli israeliani che fanno lo stesso. Sali in libreria e vedi i tavoli accuratamente separati da questo muro invisibile, da un lato si parla arabo e dall’altro si parla ebraico. Ho sempre trovato tutto questo un po’ triste, ma adesso lo vedo con occhi diversi.

Tra i gruppi in questione non corre buon sangue, è vero. Nonostante ciò, invece di combattere o di lanciarsi qualche razzo, i due si ignorano e continuano la loro vita. È difficile pensare che la pace tra gli israeliani e i palestinesi possa essere qualcosa di istantaneo: i due popoli non possono andare d’accordo da un giorno all’altro e passare da un odio sconfinato a un amore fraterno perché un gruppo di politici si sono seduti insieme e hanno disegnato un confine su una mappa. La pace sarà dunque tapparsi il naso e andare avanti, ignorarsi, sopportare l’altro e tutto ciò nell’attesa che il sentimento di unione (o di pace, appunto) si trasformi da artificiale a naturale. Beh, non sia mai che adesso gli ingegneri civili abbiano qualcosa da insegnarci.


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