Israele: Sport e rispetto dello shabbat

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Lo sport in Israele non si ferma di Shabbat.

Calciatori, giocatori di basket, pallavolisti, schermidori e professionisti di altre pratiche sportive scendono in campo di sabato. Un po’ come di domenica in Italia, un po’ come siamo abituati da sempre. Durante il weekend, dopo la dura settimana di lavoro, è concesso stendersi sul divano, godersi qualche orribile junk food guardando la squadra del cuore o il campione in carica. Così anche in Israele arriva il tanto atteso weekend e con esso le trasferte allo stadio, le partite in TV. Ma come si fa se è Shabbat?

Un giornalista di Haaretz lo ha chiesto al giovanissimo fiorettista Yuval Freilich:

“Quando avevo 13 anni l’unica cosa che volevo era diventare un bravo ragazzo religioso”, racconta Yuval che viene da una famiglia religiosa. Quando ha scelto la scherma, era solo per hobby e non pensava di diventare così forte, ma oggi impugnando il fioretto vince e il suo sogno è l’Olimpiade. Nell’intervista spiega che rinunciare al rispetto dello Shabbat per la passione della scherma non è stata una decisione facile. Racconta che nel 2008 ha fatto appello all’alta Corte suprema israeliana, ma poi ha deciso: “Quando ho gareggiato nel 2010 di Shabbat si è scatenata una grande polemica, ma da quel momento io ho deciso che se le competizioni fossero cadute di Shabbat, io avrei gareggiato”. Il suo è un sogno di ragazzo e i suoi genitori l’hanno accettato e si sono adattati. Quando ci sono le trasferte la mamma e il papà di Yuval scelgono un albergo vicino alla palestra e prenotano dalla sera prima, così sabato mattina sono pronti per raggiungere il luogo a piedi e tifare per il figlio.

La Corte suprema non interviene in decisioni puramente religiose e rimanda la questione. Così in Israele, paese di grandi libertà ma anche di grandi contraddizioni, gli ultraortodossi protestano e rimangono esclusi anche dalle competizioni sportive. Il Beitar, squadra di Gerusalemme storicamente schierata a destra, aveva protestato e promesso ai fedeli tifosi che non ci sarebbero state, nella città santa, partite di Shabbat. Ma il campionato non si ferma e, se a Gerusalemme il calcio diventa una questione politica e religiosa, i giocatori e i professionisti come il giovane Yuval Freilich, preferiscono giocare e non rinunciare alla carriera.

Ma lo Shabbat non è la sola questione religiosa, in Israele ci sono calciatori emergenti arabi che giocano in squadre israeliane e ci sono squadre arabe (Bnei Sakhnin per esempio) dove giocano calciatori ebrei israeliani. E se in Italia siamo abituati a vedere giocatori che si fanno il segno della croce sul petto prima di entrare in campo o prima di tuffarsi in piscina, da gennaio 2014 ci abitueremo a vedere giocatori in campo con la kippa, dopo il permesso ufficiale dato dalla FIFA.

La libertà di espressione scende in campo e gli sportivi incontrano culture, religioni e abitudini da tutto il mondo, ma come si fa a difendere tutte le sensibilità senza mettere troppi paletti? Come si fa a far rimanere le palestre luoghi in cui a dettar legge è la disciplina sportiva, non gli egoismi politici e le rigidità religiose?

Come dice Yuval Freilich: “Non penso che la religione debba influenzare le possibilità che ognuno ha, di avere successo nello sport, nell’arte o nella musica”. E allora quando si entra in campo o si sale in pedana ciò che conta più di tutti è avere la possibilità e la forza per giocare, tutto il resto è puro scenario.

Rebecca Treves

Foto di Rebecca Treves

 


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