Iran, è scacco matto (?)
di David Fiorentini
Sin da quando, nel 2003, gli Stati Uniti abbatterono il regime iracheno di Saddam Hussein dando prova della loro capacità di colpire, il programma nucleare iraniano ha subito una svolta sostanziale, implementando la strategia di coprire le proprie strutture militari sotto le mentite spoglie di un uso civile. Il ruolo di Mohsen Fakhrizadeh, ufficiale e ingegnere fisico recentemente ucciso, era proprio quello di gestire la parte tecnica di questa copertura, amministrando scienziati, laboratori e reattori. Di questo suo ruolo, e dei risvolti che potrebbe avere la sua morte, si è parlato in un incontro organizzato dall’EJA (European Jewish Association), che ha visto come relatore Amos Yadlin, già capo dell’intelligence militare israeliana.
Non abbiamo a disposizione dettagli specifici sui movimenti del generale iraniano, ha spiegato Yadlin, però possiamo riportare con certezza un modello d’azione generale. Gli scienziati facenti parte del programma nucleare sono dispersi tra varie università e centri di ricerca, con una copertura puramente accademica. Non appena viene richiesto il loro apporto, vengono creati ad hoc dei compiti specifici che possano avere una rilevanza accademica, ma anche il risvolto militare desiderato.
Un’opera in continua evoluzione, da gestire nella massima segretezza, che rendeva la figura di Fakhrizadeh assolutamente insostituibile nella rincorsa all’arma atomica. Ed è proprio questa unicità che ha determinato maggiormente la decisione di eliminare il generale iraniano. Ogni volta che si pianifica un attacco del genere, infatti, bisogna sempre valutare se l’obiettivo è facilmente rimpiazzabile o meno. Nel caso di Qasem Soleimani, ad esempio, è stata questa riflessione a determinarne l’uccisione, tanto che ancora oggi l’Iran fatica a trovare un sostituto all’altezza. Per cui, chiunque sia stato il mandante, evidentemente ha ritenuto così ineguagliabili le capacità dell’ufficiale iraniano da ritenere necessario un intervento militare.
Non è confermato che Israele sia il responsabile, vista la cospicua presenza di altri candidati, con altrettanto terribili rapporti con l’Iran. Un primo sospettato è l’Arabia Saudita, suo contendente per l’egemonia nella regione, che recentemente ha subito vari attacchi con droni UAV, ma certamente non si può neanche escludere il coinvolgimento degli USA. Di sicuro chi agisce ha il benestare dell’amministrazione Trump, che da tempo non aspetta altro che un pretesto, come una reazione di Teheran, per evidenziare la malvagità del regime iraniano e scatenare un attacco massiccio alle sue centrali nucleari. L’Iran ne è consapevole, ed è per questo che il “deterrente Trump”, unito alla necessità di non compromettere le relazioni con la futura amministrazione Biden, ha messo severamente sotto scacco le forze sciite.
Un eventuale attacco americano potrebbe essere il principio per un cambio di regime, visto il crescente malcontento legato alla forte crisi economica e alla mala gestione della pandemia. L’illusione propugnata dalla rivoluzione islamica sta svanendo, non tanto da un punto di vista economico, quanto da quello sociale. Le promesse degli Ayatollah non si sono mantenute, le sanzioni hanno abbattuto il tenore di vita iraniano e generato una povertà estremamente diffusa, la cui manifestazione principale sono i ben tre milioni di tossicodipendenti presenti nel Paese.
Dobbiamo aspettarci altre sorprese da qui al 20 Gennaio, quando Biden presterà giuramento? Se si presentassero altre occasioni di attacchi mirati, chirurgici e con un basso rischio di escalation, è verosimile che sia il Pentagono che la CIA diano il via libera. Il tempismo d’altronde è perfetto: Trump ha messo l’Iran tra due fuochi, e se questi reagisse, pregiudicherebbe gravemente un ritorno di Biden al JCPOA (l’accordo sul nucleare, ndr); se non reagisse, gli USA avrebbero la strada spianata per muoversi senza conseguenze.
Negli ultimi 4 anni, il maggiore deterrente era la possibilità di una violenta escalation, di cui Teheran comprendeva e temeva la pericolosità, tanto da non vendicarsi dell’uccisione del proprio astro Soleimani. Adesso che sul piatto ci sono anche i rapporti con un presidente potenzialmente più filoiraniano, gli Stati Uniti possono alzare ancora di più la pressione, e l’Iran non può permettersi di rispondere.
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