18 Marzo 20215min

“Io sono del mio amato”, un giovane ortodosso tra voglia di libertà e scontro tra generazioni

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di Nathan Greppi

 

Cosa può succedere se sei nato e cresciuto in una delle comunità più osservanti al mondo e ti innamori di una ragazza che è l’opposto dell’ambiente da cui provieni? Sarai disposto a scegliere cos’è più importante? E come si concilia la fedeltà al proprio paese con quella alla propria comunità, se le due cose sono in contrasto? Sono le domande da cui parte il romanzo Io sono del mio amato, scritto dall’autrice e regista teatrale Annick Emdin e pubblicato da Astoria Edizioni.

Siamo a Gerusalemme, nel 1995: Levi Kogan, un ragazzo ortodosso del quartiere di Mea Shearim, un giorno viene salvato da un attentato suicida da una giovane soldatessa, Yael, di cui si innamora. Tuttavia, ciò creerà una situazione conflittuale sia nel suo nucleo famigliare, e in particolare con suo nonno Chaim, sia nell’animo di Levi, che sembra costretto a dover scegliere tra l’amore per una donna e la fedeltà alla sua famiglia. A complicare le cose è il fatto che anche lui vorrebbe fare il militare, invece che studiare in yeshivà. Il romanzo alterna la storia di Levi con quella di Chaim, che da giovane lottò duramente per sopravvivere durante la Shoah, evidenziando un confronto-scontro tra le due generazioni.

La Emdin, nata a Pisa nel 1991, è già autrice di un altro romanzo, oltreché di racconti e testi teatrali. Ha anche scritto la sceneggiatura di un film ancora in produzione, L’ombra del giorno di Giuseppe Piccioni, le cui riprese sono iniziate il 15 marzo. Ha raccontato ad HaTikwa la genesi del suo ultimo romanzo.

Come è nata l’idea?

È nata quando studiavo cinema, all’Accademia Silvio D’Amico di Roma; a una lezione ci chiesero come esercizio di scrivere sul mondo haredì, toccando in questo modo le radici ebraiche della mia famiglia. Da questa esercitazione è nato un soggetto cinematografico, che divenne la mia tesi di laurea e che in seguito sviluppai come romanzo anche grazie al regista Giuseppe Piccioni, che è stato il mio relatore.

Sei mai andata in Israele per documentarti sul posto?

Sì, per svilupparlo sono andata in Israele per la prima volta; in particolare, sono andata da mio zio che vive a Gerusalemme, e che mi ha fatto delle revisioni al testo. Ho alcuni parenti laggiù, anche perché la mia nonna paterna ci è nata, mentre mio nonno, un ebreo italiano, ci è andato nel ’38, a seguito delle Leggi Razziali. Dopo la guerra, i due sono tornati insieme in Italia.

Tu scrivi soprattutto come drammaturga. Che differenza c’è tra scrivere opere di narrativa e di spettacolo?

In realtà io ho iniziato con la narrativa, con il romanzo Lividi del 2013. In un romanzo si può inventare con maggiore libertà e inserire elementi che al cinema o a teatro e più difficile mettere. Diciamo che sono medium diversi, ognuno con le sue caratteristiche.

Negli ultimi anni sono uscite diverse opere sul mondo ortodosso, come le serie tv Shtisel e Unorthodox. Quali sono state le tue ispirazioni?

Ho iniziato a scrivere il romanzo molti anni prima che uscisse Unorthodox. Sul tema ho solo visto un documentario e letto Ogni cosa è illuminata di Jonathan Safran Foer; sebbene sia una storia completamente diversa, ne ho tratto un riferimento nell’alternanza tra la storia dei nonni e dei nipoti, riprendendo il filo conduttore tra le generazioni.

Hai altri progetti sullo stesso tema?

Attualmente mi sto concentrando sul teatro, ma al di fuori del mondo ebraico.


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