Io, soldato di Tzahal a Hevron

hevron

hevronLa compagnia era pervasa da un’atmosfera di euforia ed eccitazione. Avevamo appena scoperto che quello non sarebbe stato uno dei soliti Shabat passati in caserma durante l’addestramento. Questa volta era diverso, eravamo stati selezionati per trascorrere quel fine settimana al fronte a supporto di un’unità di linea e il fronte non era un posto qualsiasi ma un luogo pericoloso e affascinante al tempo stesso così lontano dalla prospettiva degli israeliani che vivono lungo la costa eppure cosi vicino ai cuori e alla storia del popolo ebraico: Hevron, la città dei padri. Il viaggio in autobus trascorse all’insegna di un gran baccano fatto di canti prese in giro e risate, si sarebbe potuto pensare che ci stessero portando a Disneyland ma oltre i finestrini scorreva il paesaggio lunare delle montagne a sud di Hevron dove l’arido deserto del Negev incontra le brulle colline di Giudea. Bibliche suggestioni stuzzicavano la mia mente, non era difficile immaginare le tende di Abramo su quella collina o il gregge del giovane re David ancora pastore su quell’altra. Arrivati nella città questa pareva smisurata. Estesa in modo convulso e disorganico su diverse colline e vallate inondate dal sole spietato d’agosto. Era spaventosa e affascinante allo stesso tempo. Il pullman corazzato sfrecciava attraverso quartieri fantasma di vecchie case abbandonate. Più tardi ci spiegarono che l’esercito aveva fatto evacuare molti anni prima, per motivi di sicurezza, tutte le case che si affacciavano sulla via principale così che quella parte della città appariva ormai spettrale e decadente. Proseguendo lungo il viale principale incontravamo diverse pattuglie e posti di blocco e la sensazione di essere all’interno di un servizio del telegiornale si faceva strada nelle nostre menti. Alla fine arrivammo all’avamposto che sarebbe stato la nostra casa per quel fine settimana. Si trattava di un piazzale stretto e lungo puntellato da container adibiti a dormitorio, una cucina , una mensa che poteva contenere al massimo dieci persone alla volta e un piccolo deposito di scorte. Seduti su un divano sudicio e malconcio incastonato in un angolo sedevano alcuni soldati distanziati in quel luogo. Riconobbi subito che erano paracadutisti. Avevano volti esausti e guardavano noi reclute giovani entusiaste e fresche con uno sguardo vano e vuoto pieno di stanchezza e indifferenza. Per prima cosa dopo aver scaricato i bagagli e gli zaini dal bus i comandanti ci radunarono in gruppi secondo il plotone di appartenenza e si misero a smistarci in gruppi più piccoli che a loro volta sarebbero stati mandati in altri avamposti più piccoli sparpagliati qua e là per la città. Mi ritenni fortunato quando capii che sarei rimasto in quello stesso avamposto nel quale l’autobus ci aveva lasciati perché mi dava la sensazione, e a ragione, di essere il migliore tra tutti quelli presenti in città e che sarebbe stato un ottimo punto di inizio per fare esperienza al fronte.

Parte I – continua

Daniel Recanati
Daniel Recanati


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