Intesa islam-Stato italiano: uno strumento per contenere il jihadismo?

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Nell’ambito dei cicli di incontri “Insieme”  promosso a Torino dalla comunità ebraica, dall’Anpi e da altre sigle del mondo cristiano e musulmano, siamo stati chiamati come Ugei a portare un apporto dal punto di vista giovanile al tema della prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo. Ci è stato chiesto di analizzare due disegni di legge tuttora in fase di discussione in Parlamento. Il primo in materia di prevenzione del radicalismo, il secondo riguardante la libertà religiosa e di pensiero in Italia al di fuori delle tradizionali Intese con lo Stato. Per l’Ugei ha partecipato Filippo Tedeschi, di seguito il suo intervento.

Il problema è la partecipazione

Importante è risultato ai fini del nostro discorso il contributo di chi è intervenuto proprio prima di me, l’imam Sassi, e del giovane Ussuma. Due gli elementi che mi preme sottolineare: in primis il senso di emarginazione, il quale sarebbe, in una certa misura, anche causa della radicalizzazione di alcuni elementi all’interno del mondo islamico in Europa ed in Italia. In secondo luogo, un dato che mi sembra fondamentale: solo il 15% dei musulmani in Italia frequenta i centri islamici e le moschee, luoghi dove sempre più emerge il desiderio di integrarsi con il resto della società italiana mediante la visibilità, lo scambio di culture e la conoscenza reciproca.

Alla luce di queste considerazioni mi risulta difficile accogliere con favore i due disegni di legge, almeno così come ora vengono presentati. Evidente risulta infatti l’inopportunità di intitolare la proposta 3558 con “Misure per la prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista”. Il termine jihadista è evidentemente superfluo ai fini della legge, la quale raggiungerebbe i suoi scopi ugualmente e, anzi, amplierebbe la sua efficacia anche ad altri ambiti dell’estremismo contemporaneo, declinati in altre matrici. Il termine, però, non risulta solo superfluo, ma anche dannoso: va infatti ad incidere pesantemente sul primo dei due punti, l’emarginazione, da cui siamo partiti. Pur riconoscendo che quella islamica sia la forma di terrorismo che in questo momento più minaccia la nostra sicurezza, il non voler mantenere un concetto e una dicitura più generali aumenta proprio il senso di emarginazione della popolazione islamica tutta ed in particolare di quegli elementi che oggi risultano più pericolosi.

E mi chiedo poi se anche il secondo disegno di legge di cui ci occupiamo, quello in materia di libertà di coscienza e di religione, sia la risposta adeguata ai nostri due punti di partenza. E anche qui non possiamo dirci soddisfatti. Potrebbe sembrare un testo molto illuminato, o forse illuminista, perché prevede un dialogo a due Stato/cittadino, e concede a ogni cittadino quei diritti che le Intese con lo Stato, previste dalla Costituzione, concedono, ad esempio, agli ebrei. Ma è facile rendersi conto che si tratta invece di un testo succedaneo alla logica delle Intese, intese sempre più difficili tra Stato e mondo musulmano. Difficili sia per la impossibilità dello Stato di trovare un interlocutore unico e abbastanza rappresentativo dell’islam italiano, sia per la difficoltà delle varie associazioni islamiche che in questi anni si sono interfacciate con lo Stato di unirsi in un’unica voce, che comunque non sarebbe ancora rappresentativa di una quota adeguata di chi si propone di rappresentare.

È a questo punto del nostro ragionamento che noi, ebrei italiani, possiamo portare il nostro personale contributo al dibattito che stiamo affrontando ricordando il dibattito e i presupposti teorici che hanno portato alle nostre intese. Ad oggi, qualsiasi ebreo italiano, indipendentemente dal peso che egli soggettivamente dà alla propria fede, ha diritto ad astenersi dalle prestazioni lavorative nel giorno di shabbat, ha il diritto a vedersi spostati i concorsi pubblici quando questi prendano luogo nei giorni delle festività ebraiche, può mangiare kasher negli ospedali e nei centri di detenzione, ha diritto di essere seppellito secondo il rito ebraico e varie altre cose ancora. Questi diritti però, li vede riconosciuti non in quanto si definisca soggettivamente ebreo, ma in quanto egli oggettivamente lo sia e si debba quindi riconoscere giuridicamente che, in limitate materie, potrebbe trovarsi di fronte a un conflitto di doveri cui le Intese pongono rimedio. Ma al di là delle sottigliezze giuridiche, risulta quindi evidente l’interesse per ogni ebreo (oltre che forse l’obbligo in senso ebraico) di essere iscritto ad una Comunità ebraica, se non altro perché questa possa certificare verso terzi il suo status di ebreo. A titolo di puro paradosso si pensi se domani i sindacati, per mobilitare un’innovativa modalità di protesta, invitassero tutti i propri iscritti a dichiararsi ebrei per potersi astenere dal lavoro il giorno di sabato.

E dunque vogliamo concluderne che la logica delle intese produce un interesse oggettivo di ogni musulmano a far parte di organizzazioni, centri, moschee, comunità, dove l’islam è oggetto di insegnamento e dibattito, anche critico. Mentre la logica del diritto individuale di ciascuno può portare chi è già isolato a rinchiudersi ancor più in un suo islam privato, pericolosamente chiuso tra la sua stanza e i suoi libri, o forse il solo schermo del suo computer. Anzi, il voler concedere questi diritti senza la necessità o almeno lo stimolo dell’iscrizione a una comunità, rischia di rallentare gli sforzi fatti da quelle associazioni che in questi anni si sono più sforzate nel portare in porto le intese, che a questo punto, svuotate di quelli che sarebbero i loro contenuti principali, non varrebbero la pena di essere portate a termine.

La soluzione che più ci pare convincente sarebbe quindi quella di proseguire con il cammino delle intese con quelle associazioni che già sono presenti al tavolo, lavorare perché queste riescano ad unirsi in un interlocutore unico e rendere i diritti derivanti da quelle intese esclusivi, o almeno più facili da ottenere, per gli iscritti a quelle comunità. Tale iscrizione pone in essere un legame che, anche se fosse inizialmente solo formale dovrebbe poi comunque portare ad un significativo aumento di quel 15% dai cui siamo partiti. Più musulmani italiani si sentiranno coinvolti nelle proprie comunità, più il lavoro di integrazione dei propri iscritti da parte delle comunità stesse risulterà efficace. Ruolo fondamentale in questo processo sarebbe quello delle guide religiose, al quale deve spettare il delicato compito di fornire ai propri fedeli una visione dei testi sacri che si discosti il più possibile da ogni forma di radicalizzazione e fondamentalismo violento.

Filippo Tedeschi – Vice Presidente Unione Giovani Ebrei d’Italia


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