Intervista a Tatiana e Andra Bucci: “Noi, bambine sopravvissute all’inferno di Auschwitz”
di David Zebuloni
Tatiana e Andra Bucci si autodefiniscono due bambine con i capelli bianchi, e credo non esista modo migliore di descriverle. Da sempre ritenute più piccole rispetto agli altri, ancora oggi, superati gli ottant’anni, non riescono proprio a scrollarsi questo titolo di dosso. “Finché i grandi erano ancora vivi, dei bambini di Auschwitz si parlava poco”, mi confessano con una nota di rammarico. “Solo ora le persone si rendono contro di ciò che abbiamo vissuto”. La loro storia ha davvero dell’incredibile. Tatiana e Andra, infatti, appartengono ad un gruppo ristretto, ristrettissimo, di bambini selezionati all’entrata del campo di sterminio di Auschwitz dal dottor Mengele, come cavie per i suoi esperimenti. Su un milione e mezzo di bambini uccisi nel lager, solo cinquanta se ne sono salvati: tra loro, anche le sorelle Bucci. “Avere una sorella ad Auschwitz significava avere sempre una spalla su cui appoggiarti”, mi raccontano. Nonostante da molti anni ormai abitino lontane, il loro rapporto riesce a superare la barriera geografica che le divide. Durante l’intervista infatti battibeccano spesso, talvolta si trovano in disaccordo, ma basta uno sguardo d’intesa per cogliere l’amore che le lega. Parlano a mezze frasi completandosi a vicenda, come le migliori delle sorelle. Persino i loro ricordi risultano incastrarsi perfettamente, generando insieme il puzzle della loro vita, fatto di grandi gioie e di immensi dolori. Oggi Tatiana e Andra sono le più giovani testimoni dell’orrore nazista ancora in vita, in Italia e nel mondo. Prima di salutarci, chiedo alle sorelle Bucci se questo titolo generi in loro un senso di ansia, forse dovuto dalla grande responsabilità storica che si portano appresso. “Non abbiamo mai rifiutato una testimonianza e non lo faremo finché ne avremo le forze. Ci risulta impossibile declinare l’invito delle scuole, dei giovani. Sono troppo importanti per noi, sono il nostro futuro”, mi hanno risposto con un sorriso. Un sorriso da nonne. Due nonne talmente giovani, da sembrare proprio delle bambine con i capelli bianchi.
Sorelle Bucci, vi guardo, vi osservo e mi sembrate tanto diverse. Eppure si racconta che da bambine vi assomigliavate a tal punto, da sembrare gemelle.
Andra: È proprio vero. Abbiamo cominciato a cambiare dopo i dieci anni, ma da bimbe ci assomigliavamo tanto. Poi la mamma ci vestiva sempre uguali, con grande rabbia da parte nostra tra l’altro, perché la gente per strada ci fermava sempre e ci chiedeva se eravamo gemelle. All’epoca era considerata una cosa rara, non come oggi.
Tatiana: Persino Mengele ci ha scambiate per gemelle all’entrata di Auschwitz e pare sia questo il motivo per il quale ci abbia fatto passare la prima selezione. Gli servivano dei gemelli per i suoi esperimenti.
Questa somiglianza vi salvò dunque la vita. Vi siete mai domandate il motivo di questa coincidenza o, forse, di questo miracolo?
Andra: Probabilmente doveva succedere. Io dico sempre che quando una persona nasce, ha già una storia scritta e non c’è nulla che possa deviare il percorso della vita. Credo che il nostro percorso doveva essere più lungo, non poteva finire lì, all’entrata del lager.
Tatiana: Io sono atea e non credo in tutto ciò. Se ci fosse davvero un Dio, direi che non si sta comportando molto bene con noi uomini.
Andra: Ci mette alla prova Tati. Io credo in Lui.
Che ci crediate o meno, la vostra storia è davvero unica. La storia di due bambine sopravvissute al campo di sterminio di Auschwitz. Del lager avete raccontato di ricordarvi principalmente il freddo, potete provare a descrivermelo?
Tatiana: Era un freddo gelido, che non abbiamo mai più incontrato in vita nostra. Era tutto bianco il campo, una distesa di neve. Abbiamo trascorso ad Auschwitz un inverno e un’estate, eppure noi ricordiamo solo l’inverno e il suo freddo insopportabile.
Come concepisce una bambina quella macchina della morte che è Auschwitz?
Tatiana: Io sapevo che ad Auschwitz si moriva, ma non capivo cosa fosse la morte. Per questo motivo non avevo paura di morire. L’elaborazione del lutto è avvenuta molto più avanti nel tempo. Forse è stata proprio questa inconsapevolezza ad averci salvato la vita.
Una salvezza mentale più che fisica.
Andra: Esattamente. I bambini non concepiscono il pericolo e, pertanto, riescono ad accettare il bene e il male con grande facilità. Però bisogna distinguere i bambini di allora dai bambini di oggi. Ai nostri tempi, i bambini erano molto ingenui. Oggi, invece, i bambini sono molto più consapevoli della realtà che li circonda.
Quali sentimenti scaturiva in voi la vita nel lager? Paura, stupore, curiosità?
Andra: Paura, tanta paura. Specie quando entrava qualcuno in baracca a prendere uno dei bambini. Noi non sapevamo cosa accadesse a quei bambini, ma ci rendevamo conto che chi veniva preso, non tornava più. Forse temevamo che ci separassero, che ci dividessero. Noi volevamo stare sempre insieme.
Tatiana: Sì, soprattutto Andra non si allontanava da me di un passo.
Andra: Beh, ero più piccola. Tu eri la sorella maggiore.
Cosa significa avere una sorella ad Auschwitz?
Tatiana: Significa avere una spalla su cui appoggiarti.
Andra: Sì, è un grande aiuto. Un grande sostegno.
Ricordate un momento particolare condiviso insieme?
Andra: Ricordo io e Tati camminare attorno ad un piccolo gruppo di prigioniere in punizione. Saranno state quattro o cinque donne, sedute in ginocchio sulla ghiaia, con le braccia alzate e dei mattoni appoggiati sui palmi delle mani. Dovevano stare così per ore. Ecco, io me lo ricordo quel momento, lo vedo ancora davanti ai miei occhi. Vedo noi due, bambine sbalordite, girare attorno a quel gruppo di povere prigioniere in ginocchio.
Tatiana: Ricordo che la blockova, la nostra guardiana, ci diceva di non avvicinarci a loro, perché erano delle donne cattive. Poverine, che colpa avevano? Cosa potevano aver fatto di male? Erano delle vittime. Delle donne malate, sporche e rasate.
E com’è possibile che due bambine di sei e quattro anni, abbandonate all’inferno di Auschwitz, di fronte a delle immagini simili, non abbiano perso la propria identità?
Tatiana: È solo merito della nostra mamma, che ci ripeteva sempre i nostri nomi e ci diceva di non dimenticarci che siamo italiane. Ogni volta che riusciva a venirci a trovare, ci chiamava per nome. Lo faceva sempre, insistentemente.
Perché credete che ci teneva tanto a salvaguardare la vostra identità? Cosa aveva capito la mamma che voi non potevate ancora capire?
Andra: Aveva capito che senza sapere chi eravamo, non saremmo mai sopravvissute. Anche se ci avessero liberate dal campo, non sarebbe sopravvissuta la nostra persona.
Essere liberi, ma non conoscere più se stessi. È forse libertà questa?
Andra: No, sarebbe stata una cosa troppo difficile da affrontare per noi.
Di tutta la vostra storia straordinaria, ciò che più mi tocca e commuove è proprio il rapporto che avevate con la vostra mamma. Un rapporto particolare e complesso. Un amore non più corrisposto. Un amore che ha lasciato spazio alla paura. Cosa ricordate delle sue visite nel lager?
Tatiana: Proprio come noi, anche la mamma era riuscita a passare la selezione ed era entrata nel campo come prigioniera. Così, ogni tanto, quando poteva, veniva nel nostro blocco a farci delle brevi visite, ma noi non la riconoscevamo più. Fisicamente non era più lei. Magra, magrissima. Senza più capelli. E noi la rifiutavamo, perché ci faceva paura. Avevamo paura di essere toccate o abbracciate da lei. Vederla in quelle condizioni era terrificante. Quando poi ha smesso di venirci a trovare, perché era stata trasferita in un campo di lavoro in Germania, noi avevamo pensato che fosse morta. Punto a capo e la vita continua.
Com’è possibile accettare il fatto di essere orfani, con tanta passività e rassegnazione?
Tatiana: Probabilmente, senza rendercene conto, ci eravamo costruite una corazza per proteggerci. Per continuare a vivere.
Andra: Sì, come ho detto prima, per i bambini la realtà è sempre più semplice da accettare. Anche se a volte mi domando cos’abbia dovuto inventarsi la nostra mente per riuscire ad assimilare tutto ciò che ci accadeva.
Il rifiuto nei confronti della mamma, ha mai suscitato in voi dei sensi di colpa?
Tatiana: Assolutamente sì, ma è successo molto tardi. È successo quando ho stretto il mio primo figlio tra le braccia. Solo quando io stessa sono diventata madre, ho realizzato il male che avevo recato alla mia mamma. Prima non ci avevo proprio pensato.
Alla liberazione da Auschwitz credevate dunque di averla persa per sempre, ma così non è stato. La mamma era ancora viva, vi ha cercate e vi ha trovate in un orfanotrofio in Inghilterra. Eppure, anche in quelle circostanze, vedendola avete provato più un senso di repulsione che un istinto d’amore. Quando è riaffiorato in voi l’affetto incondizionato per lei?
Andra: Piano piano, tornando a casa, in Italia. Abbiamo avuto la fortuna di avere dei genitori molto intelligenti, che hanno da subito capito che il tempo avrebbe curato ogni ferita. Non ci hanno mai spinte, non hanno mai preteso da noi nulla che non eravamo in grado di dare.
Tatiana: Noi con loro non parlavamo mai del nostro vissuto nel campo. Nemmeno mamma l’hai mai fatto con noi. Di lei sappiamo pochissimo, però sicuramente è stato un bene non ricordare insieme quella fase della nostra vita. Lei si era confidata solo con un’amica, ma le aveva fatto giurare che non ci avrebbe mai raccontato niente. E infatti lei non ci ha mai raccontato nulla. Ciò mi fa pensare che la mamma abbia vissuto delle cose davvero terribili nel lager. Ecco, il suo silenzio aveva lo scopo di proteggerci da quel male.
Oltre alla mamma, c’è un’altra figura importantissima nella vostra vita e non si può raccontare la vostra storia senza ricordarla. Mi riferisco al vostro cuginetto, Sergio De Simone.
Tatiana: Sì, questa è la storia più triste in assoluto. La storia del nostro cuginetto Sergio, che era una cavia di Mengele come noi e stava nella nostra stessa baracca. Un giorno la nostra blockova, che si era inspiegabilmente affezionata a noi, avvertì me e Andra del fatto che un medico ci avrebbe radunato e ci avrebbe proposto di rivedere la mamma, ma ci disse anche che noi avremmo dovuto rifiutare l’offerta, perché si trattava di una trappola. Noi lo dicemmo in segreto a Sergio, ma lui non ci ascoltò. Quando il medico annunciò: “Chi vuole vedere la mamma, faccia un passo avanti”, lui fece quel maledetto passo.
Credo che non esista forma più subdola di condannare a morte un bambino. Non solo hanno illuso Sergio di rivedere la mamma, ma gli hanno anche chiesto di consegnarsi a loro volontariamente. Desideravano che fosse lui stesso a porre fine alla propria vita. Ciò mi riconduce ad una domanda che non ha risposta e non trova pace: perché?
Andra: Perché loro volevano che tutto accadesse in tranquillità. Potevano prendere i bambini lo stesso, certo, nulla poteva fermarli, ma loro non volevano creare confusione. Erano ossessionati dall’ordine.
Tatiana: Si trattava di un inganno davvero atroce.
Cosa accadde poi a Sergio e agli altri venti bambini che avevano fatto il passo avanti?
Tatiana: Vennero mandati nel campo di concentramento di Neuengamme, ad Amburgo. Lì subirono degli esperimenti in uno scantinato, dove iniettarono loro dei bacilli tubercolari.
Andra: Poi li stordirono con della morfina, li impiccarono a dei ganci da macellaio e dato che alcuni di loro erano troppo leggeri, dovettero appendersi a loro e tirarli per i piedi finché non morirono.
Tatiana: Per tanti anni nessuno sapeva che fine avessero fatto quei venti bambini. La loro storia venne allo scoperto solo molto tempo dopo, ma io e Andra sapevamo di essere state le ultime ad averli visti vivi.
Ripenso a quelle bambine che invece ce l’hanno fatta, che sono sopravvissute. Com’è stato per loro crescere con un numero tatuato sul braccio?
Tatiana: È come se fossi nata con questo numero. Lo porto con orgoglio, perché rappresenta la mia vittoria.
Andra: Quel numero, quel tatuaggio, è parte di noi. Non abbiamo mai pensato di togliercelo. D’altronde, anche se l’avessimo fatto, la cicatrice sarebbe rimasta. Dentro, nei nostri ricordi.
Quali altre cicatrici invisibili vi ha lasciato Auschwitz?
Tatiana: La mia cicatrice è senza dubbio Sergio, ma ho anche un altro cuginetto che non dimentico mai. Aveva la nostra età, si chiamava Silvio ed è morto nel campo di Bergen-Belsen tra le braccia della sua mamma. Quando è morto, la sua mamma ha detto: “finalmente”. Ecco, perché una madre pronunci una parola simile, significa che quel bambino deve aver sofferto davvero tanto. L’unica cosa che mi consola, è la consapevolezza che Silvio è morto tra le braccia della sua mamma, e non appeso ad un gancio.
Andra: La mia cicatrice si manifesta nel sonno. Io ogni notte faccio degli incubi, degli incubi terribili che mi riportano indietro nel tempo. Spesso mi sveglio dal mio stesso urlo, talmente soffro.
Tatiana: Sì, Andra è rimasta un po’ più sensibile. Io invece credo di essere riuscita ad uscire da Auschwitz. Non solo fisicamente, ma anche mentalmente. Cosa che a moltissimi sopravvissuti non è mai successo. Io cerco sempre di guardare il futuro. Ricordo il passato, ne parlo, lo racconto, ma preferisco sempre guardare il futuro.
Nelle vostre testimonianze specificate sempre di non ricordarvi molti dettagli della prigionia e spesso chiedete di non essere definite delle sopravvissute. Ecco, sembra quasi che non sentiate che questo capitolo della storia vi appartenga fino in fondo. Sembra quasi che abbiate pudore nell’appropriarvene più del dovuto. Perché?
Andra: Perché la maggior parte delle persone credono che, in quanto bambine, abbiamo sofferto meno degli altri prigionieri. Io stessa mi sono nascosta dietro questa frase per molti anni, finché una mia amica psicologa mi ha sgridato fortemente dicendomi che è inimmaginabile il lavoro mentale che deve aver fatto un bambino per sopravvivere al lager. Per elaborare tutto ciò che ci è accaduto. Con il passare del tempo, sto imparando a non sottovalutare più la nostra storia.
Tatiana: Quando ci presentavamo come “le bambine sopravvissute”, molte persone nemmeno ci credevano. Dicevano che era impossibile che due bambine fossero uscite vive da Auschwitz. E questo ci ha sempre fatto molto male.
Andra: Date le reazioni sempre scettiche, dati i continui rifiuti, spesso ci siamo dette che forse alcune persone avrebbero preferito saperci morte lì, nel campo, piuttosto che ritrovarci vive.
È terribile dirlo, ma effettivamente la vostra sopravvivenza può essere ritenuta quasi un errore statistico, oltre che un miracolo. Il fatto che siate uscite vive da Auschwitz è un qualcosa di straordinario, di impensabile. Un milione e mezzo di bambini sono morti lì e solo cinquanta sono sopravvissuti. Cosa si prova ad appartenere ad una minoranza tanto piccola?
Tatiana: È una meraviglia, mi sento fortunatissima. Trovo che la vita mi abbia dato moltissimo.
Andra: Sì, la vita ci ha dato tanti dolori, ma anche infinite gioie.
Se poteste tornare indietro nel tempo, cosa direste a quelle bambine spaurite che eravate nel lager?
Tatiana: L’unica cosa potrei dire loro è di trattare meglio la mamma, di non rifiutarla, di non aver paura di lei.
Andra: Sì, di starle vicino, di abbracciarla, di darle tanto amore. Sempre.
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