Intervista a Rav Amedeo Spagnoletto: “Diamo spazio al dibattito e al rispetto”

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di Giorgia Calò

 

Ex Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Firenze, ha insegnato Talmud ed Esegesi Biblica al Collegio Rabbinico Italiano. Ad arricchire il curriculum di tutto rispetto di Rav Amedeo Spagnoletto, che per tanti anni è stato professore di ebraico al Liceo Renzo Levi di Roma, la recente nomina a Direttore del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah (MEIS) di Ferrara, dopo aver già fatto parte del suo comitato scientifico. In concomitanza con la sua formazione, Rav Spagnoletto è stato attivo all’interno del FGEI, sia come consigliere, sia come Direttore di HaTikwa negli anni 1991-1992. È proprio ad HaTikwa che Rav Spagnoletto racconta non solo la sua attuale esperienza al MEIS, ma anche come è cambiato il nostro giornale in questi anni.

Lei è recentemente diventato il Direttore del MEIS di Ferrara. Quali sono le sfide e gli obiettivi che il Museo si trova ad affrontare in questo momento?

Sfide e obiettivi sono due facce della stessa medaglia: la sfida più grande è raggiungere di nuovo gli studenti. La missione del MEIS è far conoscere alcuni valori che sono alla base della cultura, del credo e del mondo ebraico: la fratellanza, la lotta al razzismo, al pregiudizio e alle nuove forme di antisemitismo. Quando parliamo invece di sfide, parliamo proprio di raggiungere le nuove generazioni, perché in questo momento il lavoro che contraddistingue la nostra attività è quasi precluso, per via dell’impossibilità da parte delle scuole e degli studenti universitari di avere attività al di fuori del loro contesto. Il MEIS è stato uno dei primi musei in Italia, e nello specifico il primo a Ferrara, a riaprire dopo il Covid, perché ci siamo attivati immediatamente con la sanificazione e con una serie di protocolli che permettevano di poter usufruire, in tutta sicurezza, degli spazi del Museo. È stato comunque un periodo di grande difficoltà, e per questo abbiamo pensato ad un’iniziativa che ha avuto un grande successo: nei mesi di luglio e agosto, abbiamo allestito un’arena cinematografica all’aperto, in cui la gente ha potuto vedere un film introdotto da un’anteprima.  L’abbiamo chiamata Ebreo Chi?, e abbiamo raccontato, proprio attraverso i film, i diversi modi di interpretare l’identità ebraica.

A 18 anni anche lei ha fatto parte dell’allora FGEI ed è stato Direttore del giornale HaTikwa. Com’era la testata sotto la sua direzione?

Nel mio percorso sono stato molto attivo all’interno del Benè Akiva. Poi sono entrato nel FGEI e ho trovato un ambiente molto dinamico, dai valori democratici, aperti, in cui il dibattito era alla base di tutte le attività. Questo per me è stato un momento di grande stimolo e di sviluppo personale e intellettuale. Al secondo e terzo anno al FGEI, ho ricoperto il ruolo di Consigliere e ho preso parte al giornale HaTikwa, prima come Redattore e poi come Direttore. Si può dire quindi che sia stata un’esperienza di crescita. Sotto la mia direzione, HaTikwa ha lentamente cambiato volto: la redazione si è resa conto che oltre ai dibattiti politici c’era bisogno di una sezione culturale, a cui personalmente tenevo molto. Tuttavia, non mancavano certo i dibattiti rispetto ai dilemmi all’interno del FGEI: ricordo benissimo che una delle questioni su cui ci siamo confrontati a lungo, e che ha trovato poi ampio spazio sulle pagine di HaTikwa, è stata l’accettazione o meno di partner non ebrei durante i campeggi del FGEI. Da una parte esisteva un’ottica secondo cui volevamo dare la possibilità ad un Fgeino di una piccola comunità di portare un amico che era su un percorso di avvicinamento all’ebraismo in vista di una possibile conversione, dall’altra c’era chi riteneva che la partecipazione dovesse essere riservata esclusivamente a ragazzi ebrei. Ricordo inoltre che presentammo un inserto di HaTikwa che si chiamava Satiritikwa, sull’esempio dell’inserto Satyricon che allora pubblicava Repubblica: un inserto satirico molto gradito ai lettori.

Com’è cambiata la testata negli anni?

Certamente voi siete più presenti nel mondo telematico, sui media, mentre negli anni ‘90 si parlava soltanto attraverso la carta stampata. Ricordo la sensazione e l’attesa di avere fra le mani un numero di HaTikwa da parte di tutti gli iscritti e dagli ex Fgeini. Tiravamo circa 8000 copie.
La carta costava, ma sentivamo il dovere di arrivare in tutte le case ebraiche delle piccole Comunità. La diffusione di HaTikwa era così capillare che arrivava in quasi tutte le case ebraiche italiane, e c’era una grande attesa per la pubblicazione del giornale: era un trimestrale che usciva quattro volte l’anno, in concomitanza del campeggio primaverile, del Congresso autunnale, il campeggio invernale e quello estivo, che i partecipanti ricevevano al loro arrivo. Oggi le cose sono cambiate del tutto. Mi chiedo se l’effetto di avere tra le mani un giornale cartaceo non potrebbe essere ancora un momento di grande emozione.

Parlando proprio di ebraismo, a suo avviso, come si può salvaguardarne l’identità tra i giovani?

Pensandosi come cittadini non di una Comunità, non dell’ebraismo italiano, ma dell’ebraismo in generale. Dovete sempre pensarvi parte di una Comunità allargata, non quella di Roma o Milano o le piccole Comunità, ma di un’unica Comunità, che coinvolge le attività degli ebrei di tutta Europa e Israele.

Quali sono le sfide e le responsabilità della nuova generazione per tutto ciò che riguarda la tradizione ebraica?

Penso che tutto ruoti intorno alla consapevolezza che creare una famiglia ebraica sia l’unico anello per trasmettere l’ebraismo alle generazioni successive. Un altro punto su cui mi sento di dire che i giovani debbano acquisire maggiore consapevolezza è sulla continuità di una formazione ebraica, che non si fermi alla frequentazione delle scuole ebraiche o ai corsi di Talmud Torah. Il tempo per poter approfondire temi ebraici e lo studio della lingua è un diritto, anche dopo il periodo scolastico.

Siamo nel periodo dei Moadim. Come si dovrebbe affrontare da un punto di vista spirituale questo periodo complesso, fatto di feste da un lato e di incertezze dall’altro?

Riprendo il concetto della famiglia ebraica, che in questo momento diventa sempre più nucleare. Il Covid ha reso difficili quelle relazioni comunitarie che avevamo prima e l’unico spazio rimasto è quello della famiglia. Fino a quando sarà ancora così, con tutte queste restrizioni che non ci permettono di andare tutti al Tempio come negli altri anni, tutto si ritrae dentro casa. Perciò immaginate l’importanza che ha la famiglia: se c’è una solidità dentro casa, il Covid non può scalfire l’identità. Per concludere, tornando a parlare di HaTikwa, c’era una dicitura legata al giornale che mi piaceva moltissimo: “Questo giornale è aperto al libero confronto delle idee, nel rispetto di tutte le opinioni”; mi piaceva l’idea che lì si potesse dar spazio a qualsiasi dibattito, qualsiasi idea, purché ci fosse il rispetto. Se pensiamo ai dibattiti che si svolgono oggi sui social, quello che manca non sono le idee, ma il rispetto delle opinioni.


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