Intervista a Pierardo Davini: “Con Trump tutti i protocolli sono saltati”

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di Luca Spizzichino

 

A seguito della morte dell’afroamericano George Floyd, sono esplose diverse manifestazioni nelle metropoli americane. Una mobilitazione di massa spinta dal malcontento generato dalla pandemia, e dalla necessità di riformare le forze dell’ordine, spesso protagoniste di atti brutali. Il più delle volte, oggetto di questi gesti violenti sono proprio le minoranze, la comunità afroamericana in primis. Ma queste proteste, diffuse su larga scala, sono sintomo di una società, quella a stelle e strisce, che sta cambiando in maniera repentina. Di quanto sta accadendo negli Stati Uniti ne abbiamo parlato con Pierardo Davini, giornalista del TG 3 e corrispondente da Roma dello US-Italy Global Affairs Forum, think tank specializzato in questioni americane e italiane.

Gli Stati Uniti stanno cambiando. Rispetto a 5 anni fa, diversi eventi sono un chiaro segno di una società che sta mutando: il malessere sociale, la disoccupazione e la disuguaglianza causata dal COVID-19 possono aver accelerato il processo?

Devo dire che l’America sembra, a mio parere, aver riscoperto quel razzismo latente cavalcato da Trump per vincere nel 2016. Non dimentichiamo che furono decisivi gli elettori bianchi e maschi degli stati del Nord-Est degli Stati Uniti. Crimini d’odio e razziali sono cresciuti in questi anni, secondo le stime del FBI, di oltre il 30%. Negli ultimi anni il suprematismo bianco e le versioni aggiornate del Ku Klux Klan hanno rialzato la testa non soltanto nei loro territori d’origine, quelli del Sud, ma anche nel resto del Paese. E conseguentemente le avversioni contro afroamericani, latinos ed ebrei si sono moltiplicate. Parlando di Minneapolis, le parole di Trump, dopo i primi saccheggi e sparatorie, sono state lette dai suprematisti bianchi e dal suo elettorato più arrabbiato, come un via libera per partecipare a violenze e saccheggi, per contestare i diversi lockdown imposti dai governatori. Queste manifestazioni però si sono rivolte anche contro la stessa Casa Bianca, con il Presidente Trump assediato da giovani dimostranti e protetto dai Servizi Segreti, portandolo a doversi rifugiare nel bunker.

Emblematica è l’immagine della Casa Bianca completamente spenta. Ciò accade solamente quando muore un presidente.

Ormai sono saltati tutti i modi di pensare. Con Trump tutti i protocolli sono saltati, quindi anche la Casa Bianca spenta fa un po’ sorridere, come a dire “non c’è nessuno in casa”.

Quale direzione può prendere la società a stelle e strisce? Si può considerare una sorta di bomba ad orologeria? Le rivolte sparse in tutta America possono essere considerate dei campanelli d’allarme? 

C’è un certo tipo di America che noi non conosciamo. Il Minnesota, ad esempio, è uno degli stati più diseguali a livello razziale nel Paese. E quindi, la rabbia e la frustrazione delle classi più povere sono più tangibili e palpabili. Mi focalizzo sul Minnesota perché è uno stato simbolo: il Governatore del Minnesota Tim Waltz, che è un democratico tra l’altro, è sicuro del fatto che ciò che sta accadendo non ha più niente a che vedere con la morte di George Floyd. E infatti secondo il dipartimento di polizia, l’80% degli atti violenti vengono da fuori, da infiltrati che non hanno niente a che fare con l’indignazione per la morte di quell’uomo. Tra l’altro non sono serviti a nulla i coprifuochi imposti dalle autorità. Addirittura, la Guardia Nazionale, chiamata a supportare la polizia locale a pieno organico, che era in servizio per tutto il giorno, si è defilata nelle prime ore del coprifuoco, lasciando campo libero ai manifestanti violenti. Waltz, inoltre, si trova in una delle posizioni più scomode, con le costanti pressioni del governo federale e il Pentagono disposto a dispiegare le unità specializzate nella guerriglia urbana. Alcuni giornali hanno già titolato “Minneapolis come Baghdad”, e i media si stanno chiedendo chi possa essere il Generale Petraeus della situazione.

Sembra quasi un clima da guerra civile…

È senz’altro un’esagerazione quella dei media, ma colpisce molto vedere i blindati agli angoli delle strade con i soldati in tuta mimetica. Il problema è anche in altre metropoli americane, con la tensione che si sta avvicinando sempre di più a quelle di Minneapolis.

La reazione di Trump all’omicidio di George Floyd, se comparata a quella di Biden, crede possa avergli fatto perdere punti percentuali in vista delle presidenziali?

L’America appare più divisa che mai. In nome o con la scusa della morte di George Floyd, ogni categoria sociale, dai politici alla polizia, fino ad arrivare ai manifestanti e i media, stanno cercando di ridisegnare, secondo me, i rapporti di forza nel paese. Ovviamente questa rabbia viene amplificata dalla catastrofe economica causata dalla pandemia, che sta colpendo le classi più povere. Se pensiamo che da marzo 41 milioni di persone hanno perso il lavoro, è inquietante questo scenario. Il fatto che queste proteste hanno preso una direzione anti-Trump, veicolate dai Democratici, oltre che dallo stesso Trump, possono diventare un importante fattore per le elezioni di novembre. Ciò può non necessariamente giocare a sfavore del Presidente; anzi, potrebbe permettere a quest’ultimo di presentarsi come colui che ha ripristinato l’ordine di un paese profondamente diviso e scosso, soprattutto nelle aree rurali e nei grandi centri urbani, che saranno cruciali per la vittoria di novembre. Bisogna anche notare come la tattica di Trump sia quella di individuare un nemico interno, facendo dimenticare tutto il resto: le morti causate dal coronavirus, la disoccupazione e i danni causati dalla pandemia. Sarà interessante osservare l’andamento dei sondaggi nelle prossime settimane. Io eviterei di guardare solo quelli nazionali, anche perché l’elezione del presidente non avviene in base ai voti su scala nazionale, ma bisogna concentrarsi su quelle statali. Alla fine a decidere le elezioni non sarà l’hipster di New York o il nerd di Los Angeles, ma la classe media dell’Ohio, del Wisconsin e degli swing states.

Un fatto che ha colpito tutti è stato l’arresto dell’inviato della CNN Omar Jimenez a Minneapolis. Come giudica l’arresto dell’inviato della CNN a Minneapolis? Come può accadere un fatto del genere in una nazione che ha nella libertà d’espressione uno dei principi fondamentali?

Può considerarsi l’eccezione che conferma la regola. L’arresto in diretta di Omar Jimenez e della sua troupe ha provocato tanti imbarazzi e scuse da parte delle autorità. Nemmeno lo stesso Trump avrebbe mai osato tanto. Si tratta di una grave errore di valutazione da parte delle forze di polizia locali. Sono ottusi, ma chi arresterebbe un giornalista in diretta? A mio parere non c’è nessuna mente diabolica nell’arresto di Jimenez, ma tanta idiozia pura.

Un fatto del genere non rischia di mettere altra carne sul fuoco sulla libertà di stampa? Con un Trump che costantemente dichiara i media diffusori di fake news, tra cui la stessa CNN.

Tra Trump e la CNN c’è da sempre questo odio viscerale, e quando può il tycoon newyorkese non perde mai un’occasione per attaccarli, accusandoli di covare odio nei suoi confronti e diffondere fake news su di lui. A dire il vero, però, non sono solo i soliti ad essere nel mirino del presidente: ci sono anche alcune voci di Fox News, la sua televisione preferita, che è da sempre schierata a suo favore. Quando dice “vedo odio verso di me a tutti i costi, non capisco perché si stanno autodistruggendo”, fa un’affermazione paradigmatica, ma al tempo stesso dimostra quanto sia autolesionista questa sua visione. Secondo me la democrazia e la libertà di stampa non sono in pericolo. 


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