Intervista a Piera Levi Montalcini: “Non voglio lasciare morire un esempio”
di David Zebuloni
Non tutti hanno il privilegio di chiamare “zia” un Premio Nobel per la medicina, eppure Piera Levi Montalcini pare farlo con estrema naturalezza. Cita “zia Rita” con tanta disinvoltura che, talvolta, ci dimentichiamo persino che la zia in questione sia una delle menti più geniali dell’ultimo secolo. Ci immaginiamo un’anziana signora impegnata a girare il ragù, invece scopriamo una figura epica, che ha lasciato un’impronta indelebile nel campo della ricerca neurologica. Parliamo ovviamente di Rita Levi Montalcini, non solo Premio Nobel per la medicina, ma anche Senatrice a Vita della Repubblica Italiana, nonché la prima donna scienziata a ricevere il prestigioso Premio Max Weinstein. Si potrebbe parlare per ore di quest’insolita zia e Piera lo fa sempre con grande piacere e con altrettanta nostalgia, ma anche con un profondo senso di responsabilità. Di professione ingegnere ed imprenditrice, Piera Levi Montalcini ha rinunciato agli studi di medicina per pietà di un gallo. “Lo usavano per le ricerche in laboratorio e mandava degli urli strazianti. Mi ha traumatizzato”, mi racconta ridendo. Eppure dietro il sorriso mite e intelligente si cela un piccolo rimpianto. Il rimpianto di non aver studiato la chimica e la biologia, materie necessarie per scoprire i segreti più nascosti di quella macchina perfetta chiamata essere umano. Una macchina che ancora oggi suscita in lei tanta curiosità. Per quanto riguarda l’inevitabile confronto con il Premio Nobel, invece, Piera mi rassicura. “Non sono gelosa di zia Rita, perché sono diversa da lei”, afferma. “Io ho fatto le cose che piacevano a me e lei ha fatto le cose che piacevano a lei”. È sincera quando lo dice. Piera ha fatto davvero ciò che più le piaceva. E lo fa tutt’ora, giorno e notte. Si dedica con passione all’incontro con i bambini nelle scuole, per trasmettere loro un po’ di quella curiosità di cui lei è tanto ghiotta. Si dedica poi con altrettanta passione alla valorizzazione del ricordo della sua amata famiglia, di cui zia Rita è l’assoluta protagonista. Lo scopo di Piera è semplice. “Non voglio lasciare morire un esempio”, mi confessa. L’esempio in questione è quello di Rita Levi Montalcini, una delle ricercatrici più brillanti che l’Italia abbia mai visto. O meglio, una delle donne più coraggiose che l’umanità abbia mai conosciuto.
Signora Levi Montalcini, viaggiamo insieme nel tempo. Qual è il primo ricordo che conserva di sua zia?
Io non me lo ricordo quell’episodio, ma la zia raccontava sempre che la prima volta che ci incontrammo, fu dopo la sua lunga permanenza negli Stati Uniti. Quando andammo a prenderla alla stazione, io afferrai mio fratello dalla giacchetta e gli dissi: “Quella non è zia Rita, quella è la figlia della fioraia”. Per me all’epoca quella signora arrivata da lontano non era altro che una perfetta sconosciuta.
E quella perfetta sconosciuta presto diventò una delle figure più importanti della sua vita. Cosa ricorda di lei con particolar nostalgia?
Non c’è una cosa in particolare, ogni ricordo che mi lega a lei è un ricordo importante. A lei e a tutta la mia famiglia. Con mio padre, con mia madre, con gli zii, con i nonni. C’era un rapporto di fiducia reciproca, una voglia di stare insieme, una voglia di raccontare che era quasi irripetibile per chiunque altro. Così era anche con zia Rita e ogni ricordo che mi lega a lei diventa un bel ricordo, come quando veniva da noi a Forte dei Marmi e andavamo insieme al mare. Tanti e tanti ricordi bellissimi, sì, ma il ricordo clou è senza dubbio la cerimonia del Nobel. Un evento come quello non si può certo dimenticare.
Mi racconta un dietro le quinte di quel viaggio così indimenticabile?
A Stoccolma accadde una cosa davvero strabiliante. Io e la zia fummo invitate a partecipare ad una cena con gli studenti del Karolinska Institute e ci ritrovammo presto sedute attorno a dei tavoli rotondi molto grandi insieme a tutti gli altri commensali. Ogni volta che ci arrivava il piatto però, si alzava qualcuno e si metteva subito a parlare. Noi lo guardavamo in silenzio e aspettavamo che finisse il suo discorso, così da poter mangiare finalmente ciò che avevamo davanti. Ad un tratto qualcuno si alzò e disse: “Ora balliamo!”. In un attimo partì la musica e zia Rita venne issata sul tavolo. Fu così che scoprii per la prima volta la sua passione per il ballo.
Aspetti aspetti, temo di non aver capito bene. Sua zia, Rita Levi Montalcini, si è messa a ballare su un tavolo a Stoccolma?
Proprio così. Fu davvero incredibile. Mai avrei pensato che zia Rita sapesse ballare. Invece ballava, eccome se ballava. Io invece no, non so ballare, però ci accomuna una cosa: entrambe siamo stonate in una maniera pazzesca.
In realtà guardandola noto tra lei e sua zia una tale somiglianza da farmi persino una certa impressione. La stessa accapigliatura regale, lo stesso sguardo intelligente, lo stesso sorriso mite.
Grazie, ma direi che caratterialmente parlando, mi accomuna a zia Rita soprattutto la grande curiosità per la realtà che ci circonda. Il continuo ragionamento volto a scoprire qualcosa di nuovo o a migliorare qualcosa che già esiste. Questo è ciò che cerco di predicare ai bambini quando vado a parlare nelle scuole. Di non dar mai nulla per scontato, perché ogni invenzione ha il suo scopo e la sua ragione di esistere. Credo che questo sia anche il segreto della giovinezza: avere sempre degli stimoli alla ricerca, anche nella sua forma più semplice e banale, come trovare il giusto incastro per far stare tutti gli oggetti dentro un cassetto piccolo.
Si è mai pentita di non aver intrapreso lo stesso percorso di studi di sua zia?
Ad oggi direi proprio di sì.
Perché? Cosa le provoca questo rammarico?
No, non provo rammarico, ma una grande curiosità. Oggi mi piacerebbe molto poter studiare la chimica e la biologia, ma purtroppo non ho più l’età per farlo. Vede, a differenze di zia Rita, a me questa curiosità è venuta programmando. Mi spiego: affrontare la programmazione di un calcolatore e scoprire che l’essere umano è capace di fare miliardi di cose in più rispetto a ciò che riesce a fare lo stesso calcolatore, ha suscitato in me una grande curiosità proprio in merito a quella macchina chiamata essere umano. Per poter inventare un robot a nostra immagine e somiglianza, d’altronde, dobbiamo prima conoscere alla perfezione noi stessi e il nostro corpo.
È vera la leggenda che narra che lei ha rinunciato agli studi di medicina a causa di un gallo?
Vero, verissimo. Il famoso gallo sgozzato, poveretto. Era un gallo che usavano per le ricerche in laboratorio e le assicuro che mandava degli urli strazianti. Mi aveva proprio traumatizzato. E poi c’era anche un’altra questione…
Peggiore del gallo sgozzato? Quale?
Beh, io al microscopio non vedevo niente. Zia Rita vedeva tutto e io non vedevo niente. Ma lei era fatta così, vedeva sempre più di quanto vedessero tutti gli altri.
Molti ricordano sua zia come una donna estremamente umile, altri invece la ricordano come una donna estremamente vanitosa. Lei che la conosceva da così vicino, cosa può dirci a riguardo?
Allora, guardi, molti hanno interpretato l’eleganza zia Rita come un desiderio di piacere sempre agli altri, nonché come sintomo di grande vanità. La sua invece non era altro che una forma di rispetto. Cioè, il fatto di non girare in vestaglia e ciabatte, significava per lei rispettare chi aveva di fronte. A casa nostra è così da sempre. Io non ho mai visto mio padre girare senza la giacca e la cravatta. Si metteva i pantaloni corti la mattina al mare per andare in spiaggia e se qualcuno lo incontrava quando indossava solo il camiciotto, lui si scusava immediatamente per non aver indosso la cravatta. Questa era dunque una caratteristica non solo di zia Rita, ma di tutta la mia famiglia.
Una volta sua zia disse: “Non potendo cambiare me stessa, cambio il vestito.”
Proprio così. E meno male che Cappucci le chiese di cucirle il vestito per la cerimonia del Nobel, altrimenti non so cosa avrebbe indossato lei.
La cosa che più mi affascina di Rita Levi Montalcini è la sua complessità identitaria. Non si è mai definita credente eppure aveva un profondo rapporto con l’ebraismo. Non si è mai definita sionista eppure aveva un profondo rapporto con Israele. Come viveva lei questi apparenti conflitti?
Credo che lei si sentisse appartenere ad una cultura. A quella cultura. Anch’io mi sento appartenere a quella cultura. Ogni tanto, quando voglio fare una battuta, dico che in vecchiaia cercherò una casa di riposo in Israele per due motivi: perché lì fa caldo e perché lì la gente mi capisce. Ovvero, in un certo senso, capisce ciò che provo. Lì l’affinità di ragionamento è totale. Ecco, penso che per zia Rita fosse lo stesso. Lei non andava mai in Sinagoga a pregare, ma si basava sempre su quella morale comune che lei sosteneva essere insita in noi.
Mi rendo conto che essere nipote di Rita Levi Montalcini sia un privilegio straordinario, ma mi domando anche cosa voglia dire vivere sempre all’ombra di un personaggio così epico. All’ombra di un Premio Nobel così ingombrante.
Io forse mi illudo, ma non credo di essere un’ombra. Una volta un bambino mi chiese se non ero gelosa di quello che aveva fatto mia zia. La risposta era ed è tutt’ora no. No, perché sono diversa da lei. Io ho fatto le cose che piacevano a me e lei ha fatto le cose che piacevano a lei. Tuttavia, ora che sono invecchiata e non ho più l’azienda, sento che il mio compito è quello di valorizzare ciò che hanno fatto il mio papà, la zia Rita e la zia Paola, che era un’artista di grandissimo talento. Questo compito poi non si limita solo al ricordo della mia famiglia, ma include anche l’elaborazione di progetti nuovi e molto importanti.
Che responsabilità implica dunque questo compito? Cosa significa essere l’erede spirituale di Rita Levi Montalcini?
La mia responsabilità è quella di non lasciare morire un esempio. Ecco, io credo che zia Rita per moltissime persone fosse proprio esempio. La zia Paola e mio padre invece non sono molto conosciuti, ma il mio obiettivo è quello di far conoscere anche loro, perché anche loro hanno innovato e sperimentato molto nella loro vita. Dunque, finché sono viva, vorrei continuare a mantenere questa impronta famigliare. Poi dovrò passare il testimone anch’io a qualcun altro.
Proprio a proposito della morte, sua zia disse: “Quando muore il corpo, rimane ciò che hai fatto”. Cosa vorrebbe che l’umanità ricordasse di ciò che ha fatto Rita Levi Montalcini?
Al di fuori di ciò che ha fatto, al di fuori di ciò che ha prodotto, al di fuori del suo lavoro; è la sua immagine, il suo modo di essere, il suo modo di rapportarsi al mondo e alle persone che secondo me va ricordato. La figura della zia nella sua completezza può essere di esempio agli altri, specie ai più giovani. Anzi, specie alle più giovani, che più volte mi hanno raccontato di aver intrapreso gli studi di medicina poiché ispirate dal coraggio di mia zia. I giovani d’altronde hanno bisogno di figure che diano loro sicurezza e zia Rita era una di quelle.
Qual è stato il suo più grande atto di coraggio?
Tutta la sua vita è stata coraggiosa. Zia Rita ha fatto sempre tutto ciò che voleva, non si è mai arresa, non ha mai mollato. Certo, ha corso dei grandi rischi, non c’è dubbio. Essere antifascista era una cosa da rischiare la pelle ai tempi della guerra, ma noi lo sappiamo bene: all’epoca rischiavi la pelle anche essendo solo ebreo, vero?
Vero, ma concludiamo con un sorriso. Mi racconta un aneddoto inedito che vede come protagonista sua zia?
È successa una cosa durante un nostro viaggio in Israele, che a me ha dato molto da pensare. Ci avevano mandato lì intorno agli anni duemila per una cosiddetta missione di pace a cavallo tra Tel Aviv, Gerusalemme e Betlemme. Come fuori programma si presentò l’occasione di andare a visitare Arafat e l’ambasciata italiana ci chiese se eravamo interessate anche noi a partecipare all’incontro. Il nostro gruppo, composto principalmente da persone molto di sinistra, si dimostrò subito entusiasta e io e la zia ci guardammo per un attimo negli occhi. Lo sguardo diceva: “siamo in una missione di pace, non possiamo svincolarci ora da questo incontro”. Accettammo dunque l’invito, ma l’ambasciata italiana fece un passo indietro e si dimostrò d’un tratto molto preoccupata all’idea che una signora di quasi cent’anni si potesse ritrovare in qualche difficoltà.
E Zia Rita era davvero in difficoltà?
Diciamo che era molto preoccupata all’idea di dover rivestire quel ruolo, specie perché accompagnata da un grande senso di contraddizione. Quel senso di contraddizione che caratterizza una persona che non vuole fare una certa cosa, ma sente di doverla fare comunque.
E quindi, cosa accadde?
Quindi niente, l’incontro con Arafat venne annullato.
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