Intervista a Idan Raichel: “Non mi nascondo mai dietro ai sogni”
di David Zebuloni
Se la musica fosse una pietanza culinaria, Idan Raichel sarebbe senza dubbio un bel piatto di Hummus: semplice, buono e conciliante. Così come il hummus mette d’accordo tutti i commensali, ecco che anche la musica di Raichel ha il potere di mettere d’accordo tutti gli ascoltatori. Gli amanti del pop e gli amanti del jazz, gli appassionati di musica etnica e quelli di musica classica; tutti abbassano le armi di fronte al suo genio musicale. Artista polistrumentista, compositore, paroliere e cantante, Idan Raichel ha segnato la musica israeliana più di quanto abbia fatto chiunque altro negli ultimi decenni. “Mi emoziono quando scopro che una mia canzone è diventata la colonna sonora della vita di qualcuno che non conosco”, mi racconta Raichel con tono sincero, senza troppa solennità. “Mi emoziono quando realizzo che una canzone che ho composto non mi appartiene più, che appartiene ormai a qualcun altro”. In effetti, quelle che dovevano essere canzoni appartenenti ad un genere musicale di nicchia, si sono rivelate invece apparetenere ad un raro genere musicale che non vede confini né frontiere. Sfidando ogni scuola di rating, Raichel riesce a tramutare un brano in lingua amarica in un vero e proprio tormentone radiofonico. Ed ecco che il parallelismo con il piatto di hummus riemerge dal subconscio (o forse dallo stomaco?) di chi scrive. Le opere dell’artista israeliano sono semplici e basilari, così come può essere semplice e basilare solo un piatto di ceci. Senza troppe sovrastrutture e ghirigori, Raichel racconta la vita e l’amore con semplicità disarmante. Quando si esibisce, predilige spesso locali intimi e poco illuminati. Al centro del palcoscenico solo un pianoforte e un microfono, nulla di più. Poi, quando comincia a cantare, rivela avere una voce delicata e sottile, priva di manierismi. Con la sua genuinità Raichel conquista un pubblico sempre più ampio, collaborando così con artisti internazionali del calibro di Alicia Keys, Mayra Andrade, Andreas Scholl, Mina, Celentano e Ornella Vanoni. Dopo aver girato il mondo, dopo aver calcato i palcoscenici più importanti d’Europa e degli Stati Uniti, arriva il momento di tornare a casa. Idan Raichel viene scelto infatti dal Ministero della Cultura per accendere una delle dodici fiaccole in onore della settantaduesima Festa d’Indipendenza israeliana. Uno dei massimi riconoscimenti esistenti ad oggi nello Stato d’Israele. Tra una lacrima e l’altra, accendendo la fiaccola, Raichel dichiara in diretta nazionale: “Dedico questa fiaccola ai grandi artisti che hanno segnato la storia di questo paese. La dedico ai miei colleghi musicisti, quelli sul fronte e quelli dietro le quinte. Io e voi non siamo altro che l’anello di una lunga catena.”
Idan, come nasce una canzone?
Basta una scintilla per poter scrivere una canzone. Una frase che suona diversa dalle altre o una semplice melodia. Non ho un metodo specifico secondo il quale compongo, aspetto solo che l’ispirazione arrivi.
E solitamente quando arriva l’ispirazione?
Tutto ciò che mi capita ha potenziale per diventare una canzone. Ogni mio incontro umano può trasformarsi in musica. Per questo faccio sempre attenzione a tenere gli occhi, le orecchie e il cuore bene aperti quando parlo con qualcuno.
La tua musica muta nel tempo? Si evolve?
La vita stessa muta e si evolve nel tempo, di conseguenza anche la mia musica non rimane sempre la stessa. Non scrivo più come un teenager, non sono più un ragazzo single che abita a Tel Aviv. Oggi sono marito e padre. È possibile che tra qualche anno cambierò di nuovo prospettiva e comincerò a comporre da nonno.
In cosa senti di essere cambiato?
Forse il tempo mi ha reso meno cinico.
C’è chi dice che oggi fai musica più pop e mainstream rispetto a quella che facevi agli esordi.
Questa divisione, questa categorizzazione in generi musicali, credo che faccia un gran torto a noi musicisti. Se per esempio definissimo Bono degli U2 un cantante rock, lo limiteremmo moltissimo come artista. E se d’un tratto volesse darsi alla musica classica? Se decidesse di pubblicare un disco di musica popolare irlandese? Ecco, capisci che questa categorizzazione fa un torto non solo a chi compone, ma anche a chi ascolta, perché educa l’orecchio ad un genere musicale specifico e non lascia spazio ad altro.
Idan, sei conosciuto come uno dei più grandi artisti polistrumentisti della nostra epoca. Nei tuoi concerti passi dal pianoforte alla chitarra, dalla batteria alla fisarmonica come se nulla fosse. Qual è il tuo strumento del cuore?
Il primo strumento che ho imparato a suonare è proprio la fisarmonica e grazie ad essa ho avuto la possibilità di conoscere infiniti mondi musicali. Suonando la fisarmonica ho scoperto il valzer francese, il tango argentino, la tarantella italiana e ovviamente la musica folcloristica israeliana. Il pianoforte invece ho cominciato a suonarlo tardi, quando avevo ormai sedici anni. Mi mancano tutte le basi classiche, ma devo dire che a volte questa mancanza ha giocato a mio favore.
In che modo?
Per compensare le mie lacune tecniche, ho dovuto imparare a fare un uso più creativo dello strumento. Meno convenzionale e classico. Come Antonio Carlos Jobim, che non era un gran virtuoso, ma aveva un modo molto toccante di suonare.
E che musica ascolta Idan Raichel nel suo tempo libero?
Mi trovo spesso ad ascoltare e riascoltare gli stessi dischi che mi accompagnano ormai da molti anni. Talking Timbuktu di Ali Farka Touré è uno di quelli. Slow Train Coming di Bob Dylan un altro. Sempre presenti anche le canzoni di Naomi Shemer e le altre canzoni che hanno segnato la storia della musica israeliana. A volte mi capita invece di ascoltare la playlist di Spotify, giusto per rimanere aggiornato.
Qualche parola sul tuo rapporto con l’Italia?
Trovo che il popolo italiano e quello israeliano condividono lo stesso temperamento e trasmettono lo stesso calore umano. Quando si arrabbiano, si arrabbiano moltissimo. Quando amano, amano appassionatamente. Quando ridono, ridono a crepapelle. Amo l’Italia. Milano, Roma, il nord, il sud. Amo visitarla in lungo e in largo. Negli anni poi ho avuto la fortuna di collaborare con Ornella Vanoni, Mina e Celentano. Credo che siano collaborazioni queste che mi accompagneranno per tutta la vita.
Ti emoziona ancora il tuo lavoro?
Mi emoziono quando scopro che una mia canzone è diventata la colonna sonora della vita di qualcuno che non conosco. Mi emoziono quando scopro che una coppia ha deciso di sposarsi sulle note di un mio pezzo o quando vengo a sapere che un mio pezzo ha accompagnato un paziente nei suoi ultimi attimi di vita in ospedale. Mi emoziono quando realizzo che una canzone che ho composto non mi appartiene più, che appartiene ormai a qualcun altro. Ecco, questo mi emoziona ancora.
E hai ancora qualche sogno da realizzare?
Non sono una persona che si nasconde dietro ai sogni. Ho fatto e faccio tutto ciò che desidero. Se desidero prendere un caravan e partire per un lungo viaggio con la mia famiglia, prendo un caravan e parto. Se desidero imparare a cucinare, imparo a cucinare. Se desidero imparare ad usare un nuovo strumento, imparo ad usare un nuovo strumento. Non ho dei sogni che desidero con distacco. Non ho dei sogni che guardo da lontano e mi ripeto che devo assolutamente realizzare, senza poi fare nulla a riguardo.
Più che sogni, mi sembrano sfide le tue.
Sì, sfide attraverso le quali imparo sempre qualcosa di nuovo.
Ci sono scuole nelle quali i testi delle canzoni di Idan Raichel vengono insegnati nell’ora di letteratura, insieme alle poesie di Chaim Nachman Bialik. Cosa pensi che si possa imparare dai tuoi testi?
Mi emoziona l’idea che il mio nome venga associato a quello di Bialik e mi lusinga l’idea di appartenere a questa categoria di mostri sacri, ma mi fa soprattutto piacere sapere che gli insegnanti sono abbastanza aperti da capire che, a volte, il linguaggio elevato che si utilizzava due generazioni fa, impedisce agli studenti di appassionarsi alla letteratura. Non credo che i miei testi possano essere associati in alcun modo alle poesie di Bialik, ma credo che attraverso di essi i ragazzi possano innamorarsi della scrittura per la sua semplicità. Quasi come fossi l’anello di una catena. I miei testi possono fungere forse da passaggio intermedio per poter arrivare poi a quelli dei grandi poeti che hanno segnato la storia del nostro paese.
Sai Idan, in questi anni mi è capitato di entrare in molte case, uffici, scuole e persino in diverse basi militari sparse per il paese. Al loro interno, appese sulle pareti, ho spesso trovato delle frasi tratte dalle tue canzoni. Ho scoperto che ognuno si affeziona ad una frase diversa, ognuno trova la storia della propria vita racchiusa in un ritornello. Esiste una frase, tra le tante che hai scritto, alla quale sei particolarmente affezionato?
Confesso di essere molto legato a tutti i miei testi. E come ti dicevo prima, confesso che mi emoziono molto quando vengo a scoprire che le mie canzoni diventano le colonne sonore della vita degli altri. E non solo della mia di vita. Detto questo, non credo di essere più affezionato ad una frase specifica rispetto a tutte le altre.
Nessuna?
Forse nell’ultimo periodo la frase che ha assunto più valore è: “Tra tutti gli attimi della propria vita, bisogna sceglierne uno e aggrapparsi ad esso, per poter dire di essere arrivati a destinazione”. Ecco, questa frase mi ricorda che non dobbiamo rincorrere sempre qualcosa. A volte la felicità la possiamo trovare proprio tra le mura di casa, o a lavoro, o nei ricordi del passato. Troppo spesso ci sediamo sul divano di casa insieme alla nostra fidanzata, ma con la testa in realtà siamo altrove. Non viviamo davvero l’attimo, non siamo davvero parte di ciò che ci sta succedendo. Desideriamo sempre essere altrove. Guardiamo su Instagram e Facebook la vita degli altri e ci dimentichiamo della nostra di vita. Questa frase ci insegna che siamo già arrivati, che non dobbiamo correre, che non dobbiamo cercare altro. Ciò che dobbiamo fare è aggrapparci ad un attimo solo della nostra vita e sentire che siamo già arrivati a destinazione.
Se ti dessi la possibilità di parlare con il bambino che sei stato, cosa gli diresti?
Direi a quel bambino di godersi la strada. Di non pensare solo alla meta, ma di godersi anche il percorso.
Cos’altro?
Gli direi di vedere in ogni porta chiusa una sfida e non un fallimento. Questa è forse la cosa più importante di tutte. Di vedere sempre la sfida, mai il fallimento.
E se ti dessi la possibilità di parlare con l’Idan del futuro. Quello che sarai tra qualche anno. A lui cosa diresti?
Di essere un nonno bravo come i miei genitori lo sono per le mie figlie, nient’altro.
L’Unione Giovani Ebrei d’Italia (UGEI) è un’organizzazione ebraica italiana. Essa rappresenta tutti gli ebrei italiani di età compresa tra i 18 e i 35 anni. L’organo ufficiale di stampa UGEI è HaTikwa: un giornale aperto al confronto di idee.