Intervista a Giampaolo Giannelli: “Sono pochissimi gli istituti nei quali si parla delle foibe”

giannelli

di David Fiorentini

 

In occasione della Giornata del Ricordo, in cui si commemorano le vittime delle Foibe, HaTikwa ha intervistato Giampaolo Giannelli, Coordinatore Regionale della Toscana dell’Unione degli Istriani.

Ciao Giampaolo. Innanzitutto ci puoi parlare della tua associazione?

L’Unione degli Istriani è la più grande associazione degli esuli del confine orientale. Nata nel 1954, ha sede a Palazzo Tonello a Trieste, ed ha un approccio totalmente storico e apolitico. Io sono il Coordinatore Regionale della Toscana, ma ovviamente l’Unione degli Istriani ha soci in tutta Italia. In particolare, la nostra associazione raccoglie anche persone, come nel mio caso, non necessariamente figlie o nipoti di esuli, ma che si sono avvicinate per sensibilità e spirito di conoscenza; la tragedia, infatti, è rimasta relegata nel dimenticatoio per decenni. Ciò fino a quando, nel 2005, è stata istituita la Giornata del Ricordo, che consente finalmente di commemorare in modo degno e decoroso l’esodo e la morte di coloro che furono discriminati soltanto per la loro italianità.

È solo negli ultimi anni che si sta cominciando a parlare più approfonditamente di ciò che è accaduto. Come mai ci è voluto così tanto tempo? Cosa ha smosso le acque dopo così tanti anni?

Le acque sono state smosse soprattutto dall’opera di un nostro socio, Roberto Menia, che si è lungamente impegnato affinché cadesse la cortina che aveva coperto questo tristissimo periodo durato quasi 60 anni. È stata un po’ un’evoluzione: con la fine dei partiti tradizionali, e quindi di un certo Partito Comunista, e il crollo del Muro di Berlino, pian piano c’è stato un mutamento di coscienza nella società, che ha permesso di arrivare ad una propria celebrazione del Giorno del Ricordo. Contestualmente, è stata finalmente conferita la Medaglia al merito civile a Norma Cossetto, giovane italiana, torturata, violentata e poi infoibata dai partigiani titini. È stato un percorso lungo, che purtroppo ancora oggi vede molte difficoltà.

Sono molti quelli che tutt’oggi, partendo da valutazioni storiche differenti, negano o giustificano le azioni di Tito. Cosa rispondete a tali illazioni?

Proprio perché amiamo avere una versione che sia la più storica possibile, quando organizziamo degli incontri e delle conferenze invitiamo sempre degli storici di “entrambe” le parti in causa; proprio perché ci sia un contraddittorio e affinché emerga quella che è la verità. Chiunque abbia studiato un po’ di storia, sa benissimo che è una vergogna che l’Italia non abbia ancora revocato l’onorificenza conferita a Tito nel 1967 dal Presidente della Repubblica Saragat. Il dittatore jugoslavo è stato veramente un sanguinario assassino; non solo nei confronti degli italiani, ma di tutti i popoli dei Balcani. Qualunque testo serio ed equilibrato è in grado di dimostrarlo, così come quanti italiani soffrirono per colpa delle persecuzioni da parte delle bande partigiane titine. Poi, è chiaro, tutto va visto contestualizzato. Sicuramente ci sono state delle situazioni a monte, che noi certamente non neghiamo, che hanno favorito questo fenomeno. Ma il problema rimane: tutti gli italiani, addirittura sacerdoti, donne e bambini, che non si “convertivano” al regime comunista o non rinnegavano la loro l’italianità finivano per essere uccisi sul posto, infoibati o costretti a scappare. Tra l’altro, occorre anche sottolineare che dopo la guerra le situazioni che i nostri connazionali hanno trovato nel resto d’Italia sono state molto diverse: si andava da una terra accogliente, come poteva essere la Sardegna, in particolare ad Alghero dove si stabilì una grande comunità di profughi, a situazioni drammatiche tipo Bologna, dove i comunisti italiani hanno rovesciato anche il camion del latte per i bambini. Era un momento storico particolare; l’opinione pubblica fomentava l’idea che gli esuli fossero o dei delinquenti venuti a rubare il lavoro agli italiani, o dei cocciuti e caparbi fascisti. Per questo motivo, ancora oggi, se si parla con qualcuno tra i pochi che sono rimasti in vita, emergono delle storie veramente tristi su tutto quello che hanno dovuto passare. E ancora più triste è che ci sono voluti quasi 60 anni per mettere un po’ a posto le cose nella memoria e nella coscienza collettiva.

Poco fa hai citato Tito. Il dittatore jugoslavo è ancora decorato con il Cavalierato di Gran Croce in Italia e la Legion d’Onore in Francia. Come è possibile soprassedere su certe tragedie e non revocare questi riconoscimenti? Come dimenticare, ad esempio, il travagliato passato di Trieste, tornata italiana solo nel 1954?

In una sola domanda purtroppo hai aperto 3 ferite. La vicenda di Trieste, prima con il Trattato di Parigi e poi con il Trattato di Osimo, è una ferita ancora aperta, con tutti i territori di quello che doveva essere uno stato a gestione “mista”, che poi non è mai stata tale. Per quanto riguarda Tito, dobbiamo evidenziare un aspetto: essendo lui deceduto, per revocare tale onorificenza occorre una nuova legge specifica. D’altro canto, sono già molti i comuni e le regioni che hanno iniziato ad approvare mozioni, inviate poi a Roma, affinché si proceda in tal senso. I tempi non sembrano ancora maturi, ma speriamo arrivino presto. Tornando invece all’epoca in cui è stata conferito il Cavalierato, purtroppo era un momento storico particolare, tanto in Italia quanto in Francia. C’erano ancora un Partito Comunista e un’Internazionale Socialista con un peso non indifferente, che facevano sì che persone ignobili come Tito ricevessero immeritate onorificenze. Vorrei anche rimarcare, per restare in Italia, le parole, a dir poco incredibili, che spese Togliatti quando uno dei più sanguinari dittatori della storia, cioè Stalin, morì. Rileggere quella dichiarazione oggi è aberrante, ma all’epoca evidentemente questo era normale.

Leggendo un libro, chiamato “Ci chiamavano fascisti, eravamo italiani”, ho scoperto come la Jugoslavia di Tito fosse considerata invece un paradiso socialista. E furono in tanti, in virtù di tale illusione, a partire verso Fiume, in quello che fu poi chiamato il “controesodo”. Ma non passò molto che la loro fantasia fu drammaticamente stroncata dalla furia comunista, tanto che molti di questi furono internati in veri e propri campi di concentramento. Quanto hanno inciso nell’immaginario italiano le vicende del confine orientale?

 Purtroppo non erano pochi visionari, c’era proprio una sorta di sogno di andare a saldare totalmente quel poco che rimaneva dell’Istria italiana con il resto della Jugoslavia. Se fai un viaggio proprio nelle terre di confine, arrivi a Porto San Rocco o a Muggia, che sono gli ultimi avamposti italiani in Istria, e ti rendi conto che all’epoca le circostanze dovevano essere veramente particolari. I problemi al confine sono nati molto prima; già a fine ‘800 erano tantissime le vicende che hanno visto il confine orientale divenire teatro di uno scontro strisciante tra la cultura slava comunista e quella occidentale nazionalista. Sono terre insanguinate, che hanno vissuto momenti tragici purtroppo irreparabili. E al di là di commemorare in modo degno le vittime, è necessario far sì che tutto ciò ci insegni che non ci sono vittime di serie A e vittime di serie B, come spesso sostengono i giustificazionisti. Tutte le vittime italiane di quel periodo non erano di serie B: erano cittadini, uomini, donne e bambini che hanno sofferto per colpa di Tito e della sua dittatura comunista. Questo è il segnale che dobbiamo veicolare all’opinione pubblica.

E oggi cosa rimane degli esuli istriani, giuliani e dalmati? Fare paragoni con la Shoah spesso è fuori luogo, ma una sfida che sia il popolo ebraico che quello istriano sono costretti ad affrontare è il tempo; i testimoni diretti stanno mano a mano svanendo. Dunque, cosa possiamo fare per continuare la gravosa missione di conservare la loro memoria?

Innanzitutto, è necessario aprire un percorso che riguardi le scuole. Sono pochissimi gli istituti nei quali si parla del fenomeno delle foibe, del dramma degli esuli e della violenza titina. Invece, bisogna far sapere chi era Norma Cossetto, far capire perché è stato importante istituire il Giorno del Ricordo, e in questo la scuola ha un ruolo assolutamente determinante. Finché non si comincerà dai più piccoli, non si riuscirà mai a consolidare il ricordo nella memoria collettiva. Pertanto, stiamo cercando di includere sempre più giovani universitari all’interno della nostra unione affinché, mano a mano, siano pronti a portare avanti il duro peso della memoria.


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