“Desideravo solo liberarmi della morte. Ma, nonostante tutto, ho scelto di non diventare come loro” – Intervista a Edith Bruck

edith

di Sara Menascì

Nascere per caso, nascere donna, nascere povera, nascere ebrea

è troppo

in una sola vita

Queste parole di Edith Bruck, estratte da “Versi vissuti – Poesie (1975-1990)”, riflettono la complessità di una vita naufragata nel dolore e navigata alla ricerca di un significato. Mi ritrovo nella sua casa, accolta con gentilezza e ospitalità. Edith ha 93 anni, è sopravvissuta alla Shoah, è autrice di libri importanti e vincitrice del Premio Strega Giovani, ma il nostro incontro è soave, quasi a dimenticarci il suo motivo, come se tutto fosse la cornice e noi il soggetto. E mentre mi invita a gustare dolci israeliani e a sorseggiare un buon caffè, come d’un tratto inizia a raccontare. Condivide con me il suo passato, il suo presente e alcune riflessioni sul futuro. Il suo sincero racconto non solo offre una visione più intensa e profonda della storia, ma anche preziose lezioni di vita e di speranza per un mondo che, visti gli ultimi eventi, sembra stia tornando ai giorni più bui dell’umanità. Iniziamo.

Signora Bruck, partiamo dal principio. Chi era Edith, da bambina?

Sono la sesta e ultima figlia di una numerosa famiglia ebraica cresciuta nel piccolo paesino di Tiszakarád. Non eravamo religiosi, ci distinguevamo dalle altre nove famiglie ebraiche del paese perché non eravamo chassidim. Sebbene mia madre fosse molto devota e si rivolgesse al Signore per ogni cosa, non indossava la parrucca ma copriva la testa con un fazzoletto, mentre mio padre indossava un cappello ma non la kippah, né aveva la barba lunga e le peyot. La nostra vita era difficile sia dal punto di vista sociale, come già accennato, che economico. Vivevamo in estrema povertà. Mio padre, reduce della Prima Guerra Mondiale, faceva il trasportatore di bestiame, guadagnando appena abbastanza per sopravvivere. Mia madre lavorava nei campi, ricordo quanto fosse estenuante per lei a causa del sole cocente. Anche io cercavo di contribuire fin da quando avevo dieci o dodici anni, togliendo le pannocchie di mais per guadagnare qualcosa. Nonostante le avversità, ricordo con affetto e gratitudine le piccole grandi ricchezze, come quando mio padre mi donò un paio di stivali in gomma che, dalla gioia, mi spinsero a ballare sul divano fino a romperlo; oppure quando mi portò tre pezzi di stoffa dalla città in occasione di Pesach, la Pasqua ebraica. Con enorme fierezza, nel cortile, provavo il nuovo vestito su misura, un lusso per me che avevo sempre indossato abiti dei miei cugini. Nel 1943, la mia famiglia costruì una piccolissima casa composta da una sola stanza e una cucina. La nostra condizione di povertà mi ha insegnato a valorizzare le piccole cose, un insegnamento che mi ha sostenuto durante la Shoah e che mi sostiene ancora oggi ad affrontare la vita.

Com’era la situazione nel suo villaggio?

Vivevamo in una comunità dalle dimensioni ridotte, con circa duemilatrecento abitanti. Tuttavia, l’antisemitismo era diffuso e palpabile. La velenosa propaganda fascista portava a violenze all’ordine del giorno: mio fratello venne aggredito e ferito alla testa, mentre ai Chassidim venivano tirate le barbe.

Con la guerra in che modo è cambiata la situazione?

Non ho percepito un repentino cambiamento, noi ebrei del villaggio siamo sempre stati soggetti all’antisemitismo. Ricordo però vivamente il momento fatale, giunto quando, all’alba, ore cinque del mattino, i gendarmi e i fascisti ungheresi bussarono alla nostra porta scatenando caos con imprecazioni e urla strazianti, costringendoci a lasciare tutto e uscire entro cinque minuti. I nostri vicini, che parlavano la nostra stessa lingua, ci portavano via dal paese. Dopo la guerra il racconto è stato volutamente distorto per attribuire ai tedeschi le azioni degli ungheresi. Comunque, nel cortile trovammo un’altra famiglia, avevano tredici figli. Ricordo che il pianto del più piccolo risuonava come un lamento universale, ma era solo un presagio di ciò che ci avrebbe atteso nel vagone del treno. Mia madre, nel tentativo disperato di proteggerci, corse alla ricerca della zuccheriera contente le medaglie di mio padre, poi le mostrò ai soldati che le calpestarono e disprezzarono. “Queste non valgono più niente, come non vale più niente la tua vita”, dissero a mio padre, dandogli poi uno schiaffo sul suo viso. Quel momento ha segnato la fine per me, quella di vedere questo crudele potere nelle mani di un giovane di venticinque anni. Quest’episodio mi ha fatto comprendere la vera portata del cambiamento che si stava verificando.

Cos’è successo dopo?

Con un carro, siamo stati trasportati alla stazione. Ricevemmo solo due gesti di pietà: una donna aprì la finestra di casa e fece il segno della croce, mentre un’altra alzò il grembiule per asciugarsi le lacrime. Queste furono le uniche reazioni ricevute dal paese. Arrivati nel ghetto, ci radunarono nella sinagoga dove passammo la notte, eravamo circa cento persone. I gendarmi e i fascisti cercavano oro, credendo che fossimo ricchi solo perché ebrei. Alcuni di noi piangevano, altri pregavano. Assieme a circa altre cinque famiglie, fummo collocati in un appartamento dove notammo il segno di quadri appesi. Capimmo di essere dentro le case già vissute di altri deportati prima di noi. Era il nostro turno. Nell’attesa, un altro gesto di umanità: un contadino superò i fascisti e i tedeschi e portò ogni genere di alimento, tra farina, sacchi di patate e tutto ciò che si poteva immaginare. Era un conoscente di mio padre, compagno durante il servizio militare. Nel ghetto, comunque, c’era una sorta di democrazia tra di noi, per cui un ebreo più ricco aiutava un ebreo più povero. Eravamo diventati tutti uguali, con lo stesso destino nefasto del quale ancora non sapevamo nulla. Lì vidi il primo tedesco, urlava e chiedeva soldi. Erano ossessionati. Dopo cinque settimane, ci caricarono su un vagone bestiame, buttarono un secchio per i bisogni e i fascisti urlarono beffardamente “Bon Voyage!”, ridendo. Questa fu l’ultima immagine dell’Ungheria.

Cosa ricorda dell’arrivo ad Auschwitz?

Arrivati ad Auschwitz, solo due parole furono udite dalle nostre orecchie: “rechts links”, cioè “destra e sinistra”, quindi lavoro forzato o forni crematori immediati. Nessuno capiva. Finii con mia madre a sinistra, poi un tedesco si chinò verso di me e disse di andare a destra. Cercai inutilmente di oppormi, mia madre si inginocchiò supplicandolo di tenerci assieme. Fu presa a calci, mentre a me fu rotto l’orecchio. Mi trovai quindi a destra, assieme a mia sorella maggiore, la mia prima speranza di sopravvivenza.

C’è un episodio che le è rimasto particolarmente impresso, fra tutto quel dolore?

A Dachau, vicino Monaco, incontrai la mia seconda luce nello Schloss Ingling, un castello dove assieme ad altre quindici ragazze svolgevamo un lavoro che, dal nostro punto di vista, era paradisiaco: pelare patate, rape, cavoli. Nella disattenzione delle due guardie, mangiavamo le bucce e tutto ciò che riuscivamo a prendere. Un giorno, dopo aver portato un contenitore di patate pelate, un cuoco mi chiese:” Come ti chiami?”. Quella semplice domanda rappresentava la bontà universale e mi aiutò a sperare, ad andare avanti, a voler vivere. Risposi con voce flebile: “Edith”. Mi disse di avere una bambina piccola come me e mi regalò un pettinino da uomo che aveva nel taschino del camice, nonostante i miei capelli fossero lunghi solo tre centimetri. Fu un gesto di umanità che non dimenticherò mai. Ricordo, però, anche di una terza luce.

Quale?

A Kaufering, un soldato mi gettò violentemente addosso una gavetta contenente due centimetri di marmellata. Anche se il gesto fu rude, per me quella marmellata rappresentava la vita e la speranza. Tutto ciò si contrapponeva alle azioni oscure documentate dai tedeschi, che ci spingevano durante le faticose marce. Non solo, la crudeltà colpì anche noi compagni dello stesso destino.

In che modo?

Io e mia sorella eravamo collocate nel blocco 11, sorvegliate da un’ebrea polacca, nostra superiore diretta e deportata qualche anno prima di noi. Anche lei era stata completamente disumanizzata. Ho pianto per tre settimane per la separazione da mia madre, ma lei mi diceva di “chiudere il becco” e non disturbare i tedeschi. Poi mi promise di farmela vedere. La seguii. Mi mostrò il fumo e mi disse che era diventata sapone e cenere. Non le credetti. Col passare del tempo, ho capito la crudele realtà di Auschwitz. Desideravo solo liberarmi della morte. Ma, nonostante tutto, ho scelto di non diventare come i nostri aguzzini. Non ho mai rubato il pane di un mio vicino, né ho accettato di fare la messaggera da un blocco all’altro, pur consapevole che avrebbe portato benefici. Come me, anche mia sorella. Anche nei campi c’era la possibilità di scegliere, e così io ho fatto.

Questa diversità d’animo l’ha portata sempre con sé?

Si. Dopo la liberazione, cinque ex soldati ungheresi, fascisti e nazisti, si avvicinarono a noi supplicando di riportarli a casa. Io e mia sorella accettammo. Decidemmo di non cedere all’odio, alla vendetta o alla denuncia, ma di compiere un gesto unico. Condividemmo il cibo preso dai magazzini americani con loro. Non volevamo conoscere i loro nomi per evitare la tentazione di denunciarli. Arrivati a Bratislava, in Slovacchia, scapparono via senza voltarsi indietro, urlandoci soltanto delle benedizioni. Non li abbiamo mai più rivisti. Tempo dopo, tra il 1946 e 1947, eravamo in un campo in Germania in attesa di poter partire per Israele. In un momento inaspettato, fuori dal recinto del campo, ci trovammo circondati da donne tedesche con le pentole vuote che imploravano di essere sfamate. Io e mia sorella ci siamo avvicinate al recinto e abbiamo condiviso il cibo con loro, mentre nessun altro lo faceva. In quel momento, non eravamo pienamente consapevoli di ciò che stavamo facendo, ma volevamo mostrare come si deve comportare un essere umano. È stato un gesto quasi simbolico, un modo per dimostrare che anche coloro che ci avevano fatto del male potevano ricevere compassione. Oggi comprendo ancora meglio il significato di quei gesto rispetto al momento stesso in cui lo feci.

Com’è stato l’arrivo in Israele?

Durante il regime comunista, l’antisemitismo cresceva con slogan come “Zidé jdou do Palestiny”, incitanti gli ebrei ad andare via. Così ce ne siamo andati, abbiamo raggiunto un campo in Germania in attesa di emigrare in Israele, che ancora non esisteva. Israele era una “prova”, soprattutto per me che ero cresciuta con una madre che mi narrava della Terra promessa, del luogo futuro in cui tutti si sarebbero amati e non ci sarebbero stati nemici. La sua ninna nanna nazionalista alimentava i miei sogni di un luogo di pace. Poi nel 1948, finalmente, venne fondato lo Stato, e noi arrivammo a settembre dopo un viaggio da diversi campi di transito in Europa che ci portarono a Haifa. Assieme a noi, nella stiva della barca, c’erano ebrei marocchini, tunisini, con barba e scalzi. Un episodio mi colpì. Subito dopo il nostro arrivo, necessitavo un bagno e trovai frammenti di ebraico attaccati a un chiodo, per pulirsi dai bisogni. Pensai immediatamente fossero pagine di preghiera, non immaginavo fossero semplici pagine di giornale. A diciott’anni, quasi diciannove. Ricevetti la chiamata per il servizio militare, ma non volevo impugnare le armi, per nessun paese. Mia sorella mi consigliò di provare, per imparare un mestiere e la lingua, ma io non volevo farlo. Sentivo di non appartenere a nessun posto nel mondo, finché per caso sbarcai in Italia nel ’54 e sperimentai per la prima volta un senso di accoglienza.

In che modo?

Le lenzuola svolazzanti e le voci nei vicoli di Napoli mi restituirono vitalità. Anche se non capivo l’italiano, incontrai Tognazzi e grazie a lui imparai le prime parole dal programma radiofonico che conduceva insieme a Vianello. Napoli mi colpì profondamente, come se mi stesse chiamando a rimanere, mi sentii accolta senza bisogno di parole. Arrivata a Roma, presi una stanza ammobiliata per 16.000 lire, a Via del Babbuino. Era un primo piano, buio e muffato, con l’immagine di Mussolini, il re Umberto e Papa Pio XII all’ingresso, il ritratto perfetto dell’Italia dell’epoca. La famiglia di portinai mi offriva la zuppa di cavoli ogni sera e, con l’arrivo della televisione, mi invitavano a guardarla, mentre io continuavo a scrivere il mio primo libro “Chi ti ama così”. Trovai poi lavoro a Via Condotti, nel salone di bellezza più famoso di Roma, gestito dalla moglie di Francesco Rosi. Nessuno sapeva chi fossi, nessuno mi chiese mai nulla. Mi fu riservato un trattamento cattivo.

La sua intera vita l’ha portata dov’è oggi, a essere una scrittrice affermata e voce importante. La sua esperienza aiuta a comprendere il passato, ma ad analizzare il presente e, soprattutto, le sfide che verranno. Perciò, lei cosa vede nel futuro?

La crescente avanzata della destra in tutta Europa mi spaventa. Non vedo un futuro roseo, specialmente per noi ebrei, considerando le minacce di Hamas. Il loro linguaggio ricorda quello dei nazisti, il che è estremamente preoccupante. Non ho più paura per me stessa, ho ormai superato paure impossibili da superare, piuttosto sono preoccupata per l’umanità nel suo complesso. Non noto una maggiore consapevolezza in Europa riguardo a queste minacce. L’uomo è sempre capace di qualsiasi cosa, specialmente di odio, discriminazione e razzismo. Il passato è sempre presente, come si può vedere nel modo in cui gli immigrati, fuggendo dalla miseria, vengono denigrati una volta giunti qui. Cosa siamo diventati? Che tipo di guerra stiamo affrontando oggi? Paragonare la situazione attuale alla Shoah è sbagliato e minimizza l’orrore e il peso di quella tragedia. La Shoah è “unicum”, come ha sottolineato Primo Levi, e non può essere confrontato con altre atrocità, anche se altrettanto orribili. Bisogna evitare di fare confronti insensati che possono svilire il significato di eventi così terribili.


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