Intervista a Daniela Sarfatti: “L’importanza di fare Memoria”

Int.Roccas

 

In occasione della Giornata della Memoria, condividiamo la storia di Daniela Sarfatti e del suo impegno nelle scuole allo scopo di rendere edotte le nuove generazioni sugli anni del Nazifascismo con uno sguardo al futuro.

Partirei dalle solite domande di prassi: Chi sei? Da dove vieni?

Sono nata a Roma il 9 aprile 1944. Insegnante in pensione, testimone di memoria, scrittrice di brevi testi, di cui uno sulla mia famiglia intitolato Un piccolo grande uomo e un’altro che è in uscita a breve.

Cosa lega la tua storia alla Shoah?

Anche se non ne ho vissuto sulla pelle gli orrori, la mia storia si lega alla Shoah. I miei genitori hanno attraversato un periodo tremendo di fuga, di nascondimenti, di false identità e alla fine l’arresto.

Furono arrestati nel maggio 1944 per una delazione fatta dai vicini di casa; io avevo 40 giorni. I miei hanno avuto il privilegio di sopravvivere grazie anche all’aiuto di persone straordinarie che meriterebbero il posto di Giusti fra le Nazioni, di cui io ho il dovere di raccontare la storia finché ho fiato in corpo.

Come la persecuzione ha influenzato la tua famiglia dopo la fine della guerra?

I miei non me ne hanno parlato fino a tardissima età. Solo a 90 anni mio padre ha raccontato a mia figlia, Silvia Mosseri, il suo vissuto. Appena laureata, lei è andata con il suo computer, ha fatto parlare il nonno ed ha salvato una storia molto importante. I miei mi hanno sempre tutelato dagli orrori che hanno passato: essere reclusi, il terrore di essere deportati, essere torturati dai tedeschi. Mia madre non mi ha mai detto cosa le hanno fatto. Contrasse il tifo, perse il latte e rischiò di perdermi. Fui salvata dalle altre carcerate, che in quel momento erano migliori di quella società che ci aveva messo in prigione. Hanno attraversato una bufera che ha sconvolto le loro vite e che hanno voluto nasconderci con l’intento di tutelarci.

La mia infanzia è stata molto felice, trascorsa tra ebrei come noi, forse per il desiderio di confortarsi l’un l’altro. Nel circolo ricreativo “Cuore e Concordia”, fondato da mio nonno Abramo Bino Cesana, ricordo: recite di bambini, adulti, commedie, lotterie di beneficenza (che mia madre Regina Cesana detta “Nonna Gigia” vinceva sempre) e balli, tra cui il valzer imparato mio padre. Ho ricordi bellissimi di un’infanzia serena tra parenti e amici.

Solo verso i 14 anni ho trovato un libro, L’ultimo dei giusti, che mio padre mi ha sottratto dalle mani dicendo che non ero ancora pronta per leggerlo. Da quel momento ho avviato il mio percorso di conoscenza sui fatti senza che loro raccontassero più di tanto. Avevo conosciuto delle persone al tempio, e non capivo quei numeri tatuati sul loro braccio. Poi a novant’anni nonno ha deciso di parlare, ed anche mia madre ha deciso di raccontarmi qualcosa della sua permanenza in prigione.

Voglio sottolineare che ricordano di quel periodo solo in senso positivo. Di quel periodo atroce hanno salvato nei loro ricordi il senso di solidarietà, l’affetto, le premure delle carcerate per me neonata. Mio padre ricordava la condivisione del pacco di cibo e il barbiere che faceva la barbara a tutti. Mi hanno trasmesso un messaggio estremamente positivo sulla vita, sottolineando come in tempi di male assoluto ci sono stati degli squarci di luce. Questi lampi sono rappresentati da tutte le persone che ci hanno aiutato con i documenti falsi e le cure mediche anche a rischio della loro vita, e non ultimo gli stessi compagni di cella di mia madre e di mio padre.

Quando è maturata la consapevolezza di fare memoria e come ha reagito il mondo non ebraico a questa decisione?

Allora la consapevolezza è maturata un po’ tardi. Questo impulso non è mai stato spontaneo, ma a scuola le colleghe erano interessate alla mia storia, mi invitavano a fare interventi nelle classi per parlare di ebraismo. Poi una volta, 15 anni fa, una collega che insegnava lettere mi chiese di venire in classe per parlare della mia storia. Andai a raccontare quello che ci era successo, e lei mi disse: “Lo sai che quello che racconti fa venire i brividi? Perché non lo scrivi?” Così ho scritto il mio primo libro, Un piccolo grande uomo; è la storia dei Sarfatti, il mio nucleo familiare.

Poi Rossella (la collega) ha cominciato a dirlo in giro, e così ho iniziato a testimoniare. Come un piccolo sassolino che genera una valanga. Vuoi per dovere istituzionale, dal momento che nel gennaio di 22 anni fa è stata istituita la Giornata della Memoria e con essa l’obbligo per le scuole di parlarne, e vuoi anche per simpatia, stima e per passaparola, mi sono trovata a raccontare in scuole di ogni ordine e grado la storia della mia famiglia. Non solo nelle scuole, ma anche nelle chiese evangeliche e in prefetture.

Più lo faccio, più capisco l’importanza di doverlo fare. Non so se esiste un modo giusto di fare memoria, però fare testimonianza coi ragazzi dà l’idea che se tiri una pietra in uno stagno, le onde che si creano potrebbero farne dei cittadini migliori. È l’unico modo ormai, dato che i testimoni di prima generazione se ne sono andati per ragioni anagrafiche, ed ora ci sono quelli di seconda generazione. Non ho nessuna fretta di andarmene (ride), spero di poter raccontare ancora per un po’.

Forse è l’unico modo al di là della retorica. Questo è sentimento, passione, sofferenza e che passa quasi geneticamente da chi ha sofferto alle nuove generazioni. Come ha scritto Hannah Arendt, “se tu affidi una storia al mondo te ne separi anche dolorosamente, questa però in qualche modo continuerà a girare per sempre”. Questo è il compito che sento di avere, non solo di parlare ma di lasciare una traccia di quel che dico. Per noi ebrei la scrittura è alla base del mondo, ed è con la scrittura che Dio ha creato il mondo, ed è con la scrittura che si tramanda, “miDor leDor”, l’insegnamento ai giovani. Parla a tuo padre che te lo dirà, come scritto nel Deuteronomio, e parla ai tuoi vecchi che te lo diranno. Questo è il senso di fare memoria secondo me.

Hai detto che vai nelle scuole a parlare. Chi ha dimostrato in questi anni maggiore interesse, maggiore empatia per gli eventi che racconti?

Tutti a partire dai bambini. Se ti chiamano in una scuola vuol dire che gli insegnanti sono sensibili e preparano gli studenti agli incontri. C’è stata una volta che ho parlato ad una radio scolastica, e ho conservato le domande che hanno fatto. Ho fatto un incontro in una scuola elementare, ed è stato meraviglioso perché ogni bambino veniva con un fiore di carta, qualcuno con le caramelle dicendo: “professoressa ci scusi per quello che abbiamo fatto, questo è per lei”. C’è del buono in tutti quelli che mi ascoltano.

Una volta il disinteresse degli insegnanti ha fatto nascere il disinteresse negli alunni, che chiacchieravano e si muovevano dimostrando un grande disinteresse; allora invece di fare discorsi inutili ho preso i ragazzi e gli ho detto: “Visto che siete un po’ agitati vi vorrei impegnare,” così sono venuti e gli ho fatto un gioco di ruolo. “Allora ragazzi, voi siete a scuola, arriva la polizia e dice che siete espulsi dalla scuola. Voi direte ‘a beh, che bello niente compiti da fare’, e no, non potete giocare la parco perché agli ebrei è proibito, e gli è proibito come ai cani l’accesso alle spiagge; il telefono e la radio erano proibite, Papa e mamma verranno licenziati e farete una vita molto grama, sarete affamati, ed un giorno ragazzi verrà qualcuno che vi dirà di seguirli, vi sbattono in un carro piombato e vi portano ad Auschwitz, Bergen Belsen, Mauthausen. Adesso voi siete appena arrivati, fate la selezione. Levatevi: occhiali, anelli, orecchini, scarpe, le stringhe delle scarpe, la felpa, il maglione. Adesso, immaginate di essere nudi, calatevi nel ruolo e quando passerete quella porta sarete già morti perché state entrando in una camera a gas.”

Alcuni sono venuti da me dicendo che si erano sentiti e si sono scusati per la noncuranza dimostrata. Ho scoperto che mettere le persone nel gioco di ruolo da efficacia alla testimonianza, la rende sensoriale, e trasmette la sofferenza.

Ci puoi raccontare un episodio piacevole durante queste testimonianze, e un monito che le nuove generazioni devo fare proprio?

Momenti piacevoli ne ho avuti: i bambini delle elementari che ti lasciano dei pensieri, dei regali, e poi ho le foto con le scuole. Una volta gli ho raccontato la storia della stella gialla che avevano imposto in altri paesi, dicendogli che loro avrebbero dovuto essere le stelle del firmamento che illuminano il mondo. Dopo cinque giorni, mi hanno mandato una foto, dove ognuno di loro aveva la stella di David in mano, che affermavano di essere le nuove stelle del firmamento. Io mi sono messa a piangere quando l’ho vista.

Le idee sono molto chiare, ho fatto un intervento al tribunale dei minori di Cagliari su dei ragazzi che avevano inneggiato su Facebook allo sterminio degli ebrei ed uno di loro aveva picchiato un ragazzo di colore mandandolo all’ospedale. Il tribunale di Cagliari aveva fatto fare loro un percorso educativo, e loro avevano capito.

L’importante è insegnare, far toccare con mano, trasmettere la cultura delle diversità. Quello che cerco di far capire è che essere diversi è bello, che tu sia una minoranza o meno. Una volta chiesi in una scuola se gli sarebbe piaciuto mangiare per sempre pasta al burro oppure se gli piacerebbe mangiare un cous cous marocchino, una bistecca americana oppure un Fish and chips inglese. La diversità è bella. Preferite un’immagine in bianco e nero oppure la pubblicità di Benetton con tutti i bambini che si tengono per mano?

Bisogna fin da ora imparare a capire che se viaggi, se conosci il mondo, sei curioso, capisci come sono le altre persone, allora vedrai che le diversità creano solo ricchezza, fanno crescere e ti fanno diventare un cittadino migliore.

Viaggiate, studiare e soprattutto non siate mai indifferenti. Se vedete un compagno più piccolo picchiato intervenite, non siate indifferenti, aiutate chi è solo, non girate la testa dall’altra parte. L’indifferenza è l’anticamera della complicità nel fare del male.

 


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