Il valore delle parole
di Cesare Terracina
Si sente spesso dire che “i fatti contano più delle parole”. In parte è così. Qual è l’utilità delle belle parole, dei “ti amo” e dei “puoi contare sempre su di me” se poi non seguono reali manifestazioni di affetto o di presenza? Acta non verba, dicevano i latini, cioè “atti, non parole”. Nonostante ciò, le parole hanno specifica importanza e peculiare valore. Basti pensare all’influenza che generano nei principali mezzi di comunicazione, social media in primis, o al loro potere nei discorsi dei politici. Riflettendoci bene, e nel farlo ci rendiamo conto di utilizzare parole nella mente, ogni parola pronunciata ha la funzione specifica di trasmettere un messaggio di cui talvolta non siamo neanche del tutto consapevoli. Le parole servono a creare ponti, a rendere possibile quella trasmissione di significato che dovrebbe avvenire all’interno delle relazioni, ma anche a elogiare, ferire, avvicinare o allontanare, rendere tristi o felici. Hanno un potere incredibile, come tutte le altre forme di comunicazione che invece trovano spazio nel piano non verbale: perfino il silenzio è comunicativo, considerando quanto sia “impossibile non comunicare” (Watzlawick, 1971). Nel mondo della psicologia è stato Sigmund Freud fra i primi a rendersi conto del valore delle parole, quando già nel 1915 scriveva: “Originariamente le parole erano magie e, ancora oggi, la parola ha conservato molto del suo potere magico”. Non è forse un caso che la psicoterapia psicoanalitica, intesa come metodo di cura della mente, si basi proprio sull’uso dei pensieri che si trasformano in parole secondo il meccanismo della “libera associazione” (Freud, 1899), cioè la verbalizzazione di idee, emozioni, ricordi e così via. Già agli albori della materia si parlava di “talking cure” (Freud & Breuer, 1895), quindi della “cura attraverso il parlare”, espressione utilizzata per la prima volta dalla famosa “Anna O.”, nome fittizio dato in letteratura ad una paziente di Breuer sottoposta a questa tipologia di intervento. Di base c’è dunque una profonda convinzione che le parole, soprattutto se inserite nel contesto di una relazione con un altro che sia disposto ad ascoltarle, possano essere liberatorie e capaci di ripulire la mente da tutte quelle angosce che l’attanagliano: un processo noto come “metodo catartico” (dal greco katharsis, purificazione). Proprio perché hanno un loro peso e valore specifico, le parole devono essere utilizzate con cura, attenzione e consapevolezza del loro potenziale, che può essere positivo o negativo. Un potenziale che l’ebraismo, con le sue norme e i suoi precetti, riconosce raccomandandone un impiego attento: da qui il divieto della Lashon HaRà, la maldicenza che ferisce, denigra e umilia il prossimo, spesso nemmeno presente fisicamente. È certo che non saremo mai del tutto esenti dalla Lashon HaRà, perché è difficile immaginare di riuscire sempre e comunque ad astenersi dal parlar male. Ma si può sperare, quanto meno, di impegnarsi nel tentativo di evitarlo il più possibile: un impegno che parte da una profonda riflessione sul potere delle parole, con noi stessi e con gli altri.
BIBLIOGRAFIA
- Freud, S. (1899). The interpretation of dreams, trans. J. Crick. Oxford University Press.(Original work published in 1899.)[SL].
- Freud, S. (2010). Introduzione alla psicoanalisi (Vol. 123). Newton Compton Editori. (Testo originale pubblicato nel 1915)
- Freud, S., & Breuer, J. (1895). Studies on hysteria. se, 2. London: Hogarth, 255-305.
- Watzlawick, P., Beavin, J. H., & Jackson, D. D. (1971). Pragmatica della comunicazione umana. Astrolabio, Roma, 35, 1-47.
Organo ufficiale di stampa dell’Unione Giovani Ebrei d’Italia. Fondato nel 1949, dal 2010 è una testata online e inserto mensile di Pagine Ebraiche.