Il suicidio dei superstiti del 7 ottobre. Un dramma psicologico

cecio

di Cesare Terracina

Lo scorso 21 ottobre è arrivata da Israele una notizia sconvolgente: Shirel Golan, giovane sopravvissuta alla strage del 7 ottobre mentre si trovava al Nova Festival, si è tolta la vita nel giorno del suo 22esimo compleanno. Troppo intenso il dolore, troppo lacerante il trauma. Il suo, però, non è un caso isolato. Secondo la BBC, tanti altri superstiti hanno avuto bisogno di cure psichiatriche e, in alcuni casi, sono stati ricoverati in reparti specializzati. In un’intervista rilasciata ai media israeliani, Guy Ben Shimon ha raccontato le immense difficoltà psicologiche causate dal trauma: “Non sono più in grado di far niente. Ho dovuto prendere un cane che potesse aiutarmi nelle semplici azioni quotidiane”. Il fenomeno, dunque, esiste e non può essere ignorato, sebbene la questione sembri piuttosto spinosa in Israele, dove in tanti criticano il governo per non aver fatto abbastanza nel supporto psicologico. Quelle del 7 ottobre sono vittime di un evento talmente grave da essere quasi impensabile e difficile da spiegare a parole. Suicidio” è sicuramente una parola che spaventa, complessa a tal punto che vari studiosi della materia sono concordi nel ritenere che il termine non si presti ad un’univoca definizione (Silverman, 2006). L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS, 1998) lo descrive come “un atto di eliminazione di sé stesso, deliberatamente iniziato ed eseguito dalla persona interessata, nella piena consapevolezza o aspettativa di un suo risultato fatale”. Il fenomeno è molto più ampio, non può essere ridotto al solo gesto finale e si estende, infatti, anche ai tentativi che lo precedono e dunque anche a quelli che si costituiscono come importanti fattori di rischio. Tra questi sicuramente la malattia mentale, ma anche fattori genetici, biologici, ambientali e individuali, economici, sociali e relazionali (OMS, 2014). Si deve anche tener quindi conto della storia di vita del soggetto e dell’ambiente che lo circonda, e ridurre il fenomeno alla sola eventuale presenza di una depressione o di un trauma significa non considerare aspetti che invece non possono essere ignorati. Quello che Amery (1976) chiama “momento del salto” è spesso preceduto da “fantasie suicidarie”, con cui l’individuo produce e immagina scene relative alla sua morte (non significa necessariamente che voglia davvero passare all’atto) e poi da una vera e propria “ideazione suicidaria”, quando la persona ha una rappresentazione frequente e quasi intrusiva della sua morte, spesso nella forma di un vero e proprio progetto con cui si toglierebbe la vita (Rossi Monti & D’Agostino, 2012). Non è dato sapere cosa abbia attraversato la mente dei giovani ragazzi che ballavano al Nova Festival, ed è poco opportuno scrivere di una sofferenza che sì, sentiamo nostra in quanto ebrei e persone ancor prima, ma che in realtà non possiamo nemmeno lontanamente immaginare. La parola chiave è proprio questa: sofferenza. Shirel e altri come lei hanno vissuto qualcosa di indicibile, un evento impensabile, che troppo difficilmente si presta a elaborazioni se non attraverso una fitta rete di supporto psicologico, psichiatrico e sociale che è mancato o non è stato sufficiente. Il 7 ottobre è una tragedia che ha creato mostri interni difficili da combattere. A tal punto che per molti l’unica via di uscita è stata quella più estrema. Ma ci sono altre vie, è necessario crederci. Altre strade e percorsi che possono salvare la vita. Chiedere aiuto è fondamentale: certamente a un professionista della salute mentale, ma anche, per cominciare e riaccendere la speranza, a un amico fidato, un parente, un genitore. Questo si estende anche a tante altre situazioni difficili da affrontare nella vita di tutti i giorni. Quelle montagne da scalare che sembrano non aver mai fine, quei problemi che spesso appaiono insormontabili, si rivelano tanto più piccoli quando discussi nel contesto della relazione con qualcuno che sia davvero disposto ad ascoltare e a esserci. Shirel era rimasta in contatto con le famiglie dei suoi amici barbaramente uccisi, ma non è bastato. Il supporto di figure care dev’essere costante e richiama alla responsabilità di tutti a esserci per aiutare chi è in difficoltà. “[…] è sorprendente il modo in cui problemi che sembravano insolubili diventano risolvibili quando qualcuno ti ascolta” dice Carl Rogers (2013). Bene: cerchiamo di essere, l’uno per l’altro, quel “qualcuno che ascolta”.

BIBLIOGRAFIA
• Améry, J. (1976). Levar la mano su di sé. Torino: Bollati Boringhieri, 1990.
• Rogers, C. R. (2013). Listening and being listened to. In On Becoming an Effective Teacher (pp. 67-76). Routledge.
• Rossi Monti, M., & D’Agostino, A. (2012). Il suicidio. Roma: Carocci.
• Silverman, M. M. (2006). Suicide and suicidal behaviors. In College mental health practice (pp. 303-323). Routledge.
• World Health Organization. (1998). Primary prevention of mental, neurological and psychosocial disorders. World Health Organization.
• World Health Organization. (2014). Preventing suicide: A global imperative. World Health Organization.

 


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